Ne sto sentendo di tutti i colori. Forse è il caso di provare a fare un po’ di ordine. L’Italia ha improvvisamente scoperto l’esistenza del franco cfa (sefà, per favore, non cieffea!) quando da anni gli attivisti africani si sgolano invano nel denunciare l’esistenza di questo cappio al collo. Il problema – dal mio punto di vista – è che questa “scoperta” ci rende miopi davanti a una situazione ben più complessa:

1. Al franco cfa sono vincolati 14 Paesi africani. L’Africa di Paesi ne conta 54. Negli altri 40 va tutto bene? Direi proprio di no.
2. In base ai dati ufficiali degli sbarchi forniti dal Viminale, aggiornati al 31 dicembre 2018, si indicano i Paesi di provenienza dichiarati dai migranti. Abbiamo al primo posto la Tunisia, con oltre 5mila persone, seguita da Eritrea (oltre 3mila), Iraq (1700), Sudan (1600), Pakistan (1500), Nigeria (1200), Algeria (1200), Costa d’Avorio (1000), Mali (800), Guinea (800).

Ho arrotondato, le cifre mi servono giusto per far capire in maniera chiara che fra i primi dieci Paesi di provenienza ci sono solo due Stati che usano il franco cfa, che sono la Costa d’Avorio e il Mali: 1800 persone e poco più. Quindi, in sintesi: il franco cfa è un problema? Sì. E anche grosso. E sbaglia chi (come alcuni esponenti del Pd in queste ore) nega le sue pesanti ricadute sulle fragili economie africane. Ma il franco cfa è la causa di tutti i mali d’Africa? No. È la causa dei flussi migratori? No, se non in piccola parte.

Per essere ancor più chiara ed esplicita: la Francia attua politiche che potrebbero chiamarsi neocoloniali? Sì. È da sola? No. Niente affatto. È in ottima compagnia. Il continente nero è da anni, da decenni, anzi da secoli preda di interessi di ogni genere. Senza andare indietro nel tempo, oggi a spartirsi la torta sono i Paesi europei, gli Stati Uniti e diversi Paesi arabi e asiatici, tra cui fa da padrona la Cina, che se ne frega del rispetto dei diritti umani e stipula contratti ovunque pur di foraggiare la propria crescita economica. Noi occidentali, almeno sulla carta, il rispetto dei diritti umani lo pretendiamo. Salvo poi agire sottobanco alimentando corruzione e sfruttamento. E non so cosa sia peggio, fra la nostra ipocrisia e il freddo pragmatismo cinese. Di certo, né l’uno né l’altro fanno bene al continente.

Forse dovremmo partire dal decolonizzare le economie e le politiche africane, come ben documenta il reportage di Gianni Ballarini per FQ Millennium, oggi in homepage. Forse dovremmo smettere di scegliere noi i leader che ci fanno comodo perché corruttibili, perché si prestano a lasciar proseguire lo sfruttamento indiscriminato del continente, e avversare gli altri, tacciati di essere nazionalisti antioccidentali. Ma attenzione: anche qui la situazione è complessa e c’è chi – fra i leader africani – si fa vanto di far la voce grossa con l’Occidente semplicemente per poter rubare e affamare impunemente il suo popolo. Le situazioni – dicevo – sono complesse e ogni semplificazione è nemica del vero.

Eppure gli africani francofoni sono sempre più nettamente schierati contro il franco cfa e quelle che vengono sempre più spesso viste come ingerenze della Francia nelle scelte politiche interne. Un esempio su tutti: tra le cause che portarono all’interventismo francese in Libia (lasciando in eredità al mondo un non-paese nelle condizioni che vediamo, con tutte le conseguenze), non c’erano solo gli interessi legati al petrolio, né la volontà di Sarkozy di coprire i finanziamenti ricevuti per la sua campagna elettorale.

Gheddafi avrebbe avuto in programma il lancio di una moneta panafricana. Questo avrebbe ovviamente comportato la scomparsa del franco cfa e delle enormi entrate nelle casse francesi. Badate bene, non si tratta di dietrologie o complottismi. Se ne parlava ad esempio in una delle mail inviate a suo tempo da uno degli uomini sul terreno a Hillary Clinton e rese pubbliche nel 2016 da WikiLeaks. E per non destare sospetti di partigianeria, vi mostro che ne parlava lo stesso Le Monde.

Un altro esempio: pochi giorni fa vi ho raccontato che l’ex presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, è stato prosciolto dalla Corte dell’Aja. Ebbene, nella sua autobiografia il discusso capo di Stato racconta che aveva deciso di uscire dal giogo del franco cfa. Tenete conto che la Costa d’Avorio è la prima economia dei 14 Paesi vincolati alla moneta francese e ne rappresenta da sola circa il 40%. Ebbene – stando a Gbagbo – la Francia organizzò una ribellione e fece in modo di far cadere il suo governo e di far passare il Paese nelle mani dell’opposizione. Qui va precisato che si tratta solo del suo racconto, senza altri riscontri oggettivi. Tuttavia, è quantomeno un elemento di riflessione. Senza contare la frase sibillina con cui lo stesso Silvio Berlusconi avrebbe messo in guardia Gbagbo nel 2002: “Non fidarti di Jacques Chirac. È molto simpatico, ma ti pugnala alle spalle”. E quella notte ci fu un tentativo di golpe.

Due esempi su tanti che si possono portare, per mostrare l’influenza francese su diversi Paesi africani. Ma – ribadisco – la Francia non è l’unica. I Paesi anglofoni rientrano in un’altra sfera d’influenza. La ricchissima Repubblica Democratica del Congo, francofona, ha una sua moneta, il franco congolese, che non vale nulla ed è utilizzata solo dalla popolazione, mentre tutte le transazioni di un certo peso si effettuano in dollari americani, a partire dal conto dell’hotel o del ristorante per noi stranieri. Un’economia a due velocità.

Se ci sta davvero a cuore il bene del continente, i responsabili del suo sfruttamento vanno indicati tutti, comprese le multinazionali italiane che (come dimostrano procedimenti in corso) alimentano la corruzione e inquinano irrimediabilmente intere porzioni di territorio. Comodo puntare sempre il dito contro gli altri senza guardarsi in casa. Se ciascuno facesse la sua parte, forse le cose comincerebbero a funzionare meglio. Invece no, l’Eni non si tocca, scherziamo? È solo colpa del franco cfa.

E poi, di nuovo: facile puntare il dito contro i grandi. E noi? Io, tu che leggi? Facciamo la nostra parte di consumatori consapevoli per evitare lo sfruttamento? O siamo solo capaci di accusare, senza mettere in discussione il nostro stile di vita individuale? Continuando a gustarci inconsapevoli il pesce pescato chissà dove, magari proprio davanti alle coste senegalesi, o il cacao delle piantagioni ivoriane che fanno lavorare bambini, oppure cambiando smartphone ogni anno senza preoccuparci dei gruppi armati che insanguinano l’est del Congo per estrarre il coltan? Poi tacitiamo le nostre coscienze dando il Nobel al dottor Mukwege. E badate, non mi permetterei di pontificare se non avessi scelto di acquistare, fin dal suo nascere, un FairPhone. La coerenza anzitutto.

Quindi, per favore, sacrosanta la denuncia del franco cfa, ma da sola non basta. E non usatela per giustificare i morti in mare, come esorta l’attivista congolese John Mpaliza. E anzi, a chi chiude i porti o peggio invoca il blocco navale, dico: lo volete? Ok, facciamolo. Ma in entrambe le direzioni. Quanto reggerebbero le nostre economie, secondo voi, senza lo sfruttamento intensivo e indiscriminato del continente africano? Quanto durerebbe il nostro benessere conquistato sulla pelle di altri esseri umani? Blocco navale subito. Basta esportare armi e rifiuti tossici. E basta importare petrolio. Basta oro. Basta coltan. Basta cobalto. Basta smartphone ed elettronica, basta auto a benzina e pure elettriche, dato che pure il nostro ecoprogresso si fa sulle spalle di moderni schiavi. Tutti in bicicletta, che ci guadagna l’ambiente. E torniamo alla carta, alle lettere, ai bigliettini. E forse così – tra l’altro – fesserie e insulti gratuiti ci impiegherebbero un po’ di più a circolare.

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