Noto in tutto il mondo come l’“uomo che ripara le donne”, titolo di una fortunata biografia scritta dalla giornalista belga Colette Braeckman, Denis Mukwege è molto più che un affermato ginecologo congolese. Insignito di numerosi riconoscimenti internazionali, fra cui il premio Sakharov 2014, il dott. Mukwege cura da anni le donne vittime di violenza sessuale a Bukavu, capoluogo della martoriata provincia del Sud Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo, di cui è originario. Ma aver curato per anni e anni donne devastate lo ha portato ad alzare la voce, a rendersi protagonista di denunce ai più alti livelli internazionali su ciò che avveniva e tutt’ora avviene nell’est del Paese. Ha parlato davanti al Parlamento europeo, davanti alle Nazioni Unite, in qualunque contesto fosse possibile e utile. E parlando ha sempre denunciato con chiarezza connivenze, poteri forti, interessi nazionali e internazionali che hanno da anni trasformato il suo Paese in terreno di scontro per il controllo di enormi ricchezze.

Il dottor Mukwege ha tuttavia rifiutato il ruolo di star umanitaria. “Ne ho abbastanza di questi viaggi, di questi premi – ha osato dire proprio quando nel palazzo reale di Bruxelles gli veniva consegnato, nel maggio 2011, il prestigioso premio della Fondazione Re Baldovino per lo sviluppo – Preferirei farmi dimenticare, ritornare a essere un semplice medico di villaggio. A condizione che finalmente la comunità internazionale si assuma le proprie responsabilità e risolva il problema. Ascoltarmi vi mette la coscienza in pace, ma se nulla cambia a che serve? Mi danno premi e denaro per tamponare le conseguenze, ma non si interviene sulle cause dei conflitti”.

Molto più che uno stimato ginecologo: una voce forte e coraggiosa per la pace e la giustizia. Ha pagato un prezzo alto per questo: il suo ospedale ha rischiato la chiusura, due volte hanno attentato alla sua vita e si è salvato per miracolo, mentre la sua guardia del corpo è rimasta uccisa. Ma non desiste. Al Panzi Hospital di Bukavu, di cui il dott. Mukwege è direttore, ci sono stata nel lontano 2006, a ridosso delle prime elezioni democratiche dopo quarantanni: erano giorni di grande fermento, in cui si intravedeva, per la prima volta dopo anni, la speranza di un cambiamento. I congolesi erano positivi, fiduciosi, si guardava al futuro con gioia. Eppure, varcare la soglia del Panzi Hospital era come mettere un piede all’inferno. Luogo lindo e ben curato, ma le pazienti erano mute, con gli occhi persi nel vuoto. Donne devastate. Non solo stuprate, ma vittime di una violenza cieca e feroce, bestiale, che spesso lascia strascichi irreparabili anche nel fisico, oltre che nell’animo. Donne violentate, magari con oggetti o armi, con una ferocia tale da ritrovarsi con l’apparato riproduttivo e urinario sventrato. Ecco: il dottor Mukwege prende in carico queste persone e offre loro una seconda possibilità, cercando coi suoi collaboratori di vincere anche l’ostracismo che le isola dalla società una volta dimesse.

Perché in Congo, come altrove, la violenza sessuale di massa è arma di guerra, al punto che dal 2004 al 2011, stimano le Nazioni Unite, almeno 200mila donne sarebbero state vittima di violenza: devasta le vite di chi la subisce, ma soprattutto mina alle radici un tessuto sociale basato sul ruolo delle donne, che sono il vero motore della società. Una donna stuprata è una donna reietta, socialmente morta, emarginata dalla famiglia e dalla collettività. E reietta è la creatura che spesso nasce a seguito di una violenza. Non c’è pietà: si colpiscono ragazze, donne mature, talvolta anziane. E bambine. Qui spesso subentrano anche le credenze magiche secondo cui violare una bambina curerebbe dall’Aids o garantirebbe ricchezze e potere. In ogni contesto di guerra lo stupro viene adoperato come strumento d’offesa, ma forse mai come in Congo l’orrendo fenomeno è divenuto una piaga sociale, coinvolgendo milizie armate, truppe straniere e membri dell’esercito regolare. Nessuno esente.

Non per nulla, Denis Mukwege è voce scomoda e temuta dal potere, proprio perché denuncia senza freni anche le connivenze e le coperture dall’alto ed è ascoltato all’estero e seguitissimo in patria. Anche lo scorso luglio aveva esortato la popolazione a “lottare pacificamente” contro il regime del presidente decaduto Joseph Kabila. Perché c’è un dettaglio per nulla trascurabile nell’assegnazione di questo Nobel: il premio giunge in un momento politicamente delicatissimo, in un paese che si appresta ad andare alle urne per votare il nuovo presidente. Kabila, al potere dal 2001, in base alla costituzione ha terminato il suo mandato nel dicembre 2016. Ma non ha voluto andarsene, finora. Solo dopo anni di trattative e annunci, si è fissata la data del voto al prossimo 23 dicembre. E a sorpresa Kabila ha annunciato che non si ricandiderà: al suo posto, un fedelissimo, Emmanuel Shadary Ramazani, mentre i più temibili concorrenti con una scusa o l’altra sono stati estromessi dalla candidatura. Le elezioni in arrivo saranno un passaggio fondamentale, in un paese che in vent’anni ha contato milioni di morti (le stime vanno da 6 a 8). Il Nobel a Mukwege, nemico giurato di Kabila, esponente di spicco della società civile che ha sempre rifiutato un ruolo politico, anche se in tanti gli chiedevano di candidarsi, resta un segnale forte, fortissimo al gruppo dirigente in carica che spera nel gattopardesco “cambiare tutto per non cambiare nulla”.

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