“Questa è casa nostra” urlò uno dei Casamonica mentre documentavo l’arresto di Antonio Casamonica dopo l’aggressione al Roxy bar. Era il maggio scorso. In quella frase c’è tutto il mondo dei Casamonica, la sicumera di farla franca, l’impunità diffusa, l’orgoglio dell’appartenenza. Otto ville di appartenenti alla famiglia, ieri mattina, sono state interessate da un’operazione dei vigili urbani. Saranno distrutte. Ognuno ha voluto metterci il cappello, ma di certo gli ordini di demolizione possono restare – e spesso restano – nei cassetti per anni. L’impulso politico è fondamentale. Da giornalista ho raccontato scelte sbagliate, nomine errate e criticato la sindaca Virginia Raggi, ma bisogna riconoscere quanto accaduto oggi e anche evidenziare perché è importante questa giornata.

Si tratta di un piccolo passo, ma abbattere una villa – al netto dello stile pacchiano della famiglia che si trasforma nella centralità del racconto – è un segnale. Un segnale di primi vagiti, timidi, di infiltrazione dello Stato in quei territori. Roma è un territorio sommerso dal potere criminale: una città che, dopo l’inchiesta Mafia capitale, doveva essere sciolta per mafia. Alla fine si scelse la strada all’italiana, la scorciatoia, disponendo lo scioglimento solo del municipio di Ostia. Lo scorso luglio, finalmente, alcuni Casamonica sono stati arrestati per mafia e uno dei padrini, Giuseppe Casamonica, è finito al 41 bis dopo anni di sottovalutazione e indifferenza diffusa.

In questo contesto di criminalità diffusa, di presenza costante, c’è un lavoro di bonifica da fare impressionante e vale un principio: quello dell’etica della bellezza. Se attorno è desolazione, assenza di servizi, inquietudine, lo Stato non avrà cittadinanza. Le ville abusive sono decine così come ce ne sono altre confiscate e inutilizzate. I segnali si devono moltiplicare e insieme ripristinare valori minimi di convivenza e rispetto delle regole.

“Quando ti prendono il locale non sai che farci. Io ho paura di questi, a Roma è così e non c’è niente da fare”. Così una delle decine di vittime dei Casamonica mi ha raccontato il suo calvario. Non denunciarli, ma nominarli è stato – ed è ancora – impensabile, perché rappresentano la violenza che per troppo tempo ha fatto rima con impunità. Poi uno guarda gli arredi e sghignazza, convinto di trovarsi di fronte alla serie C del crimine: ma guai a considerarli alla stregua di banditismo d’accatto. Non lo è quando ricicla soldi in banche straniere, quando commercia droga con i principali gruppi criminali del Paese, quando investe e lava denaro, quando controlla palmo a palmo il territorio, quando mette sotto scacco imprese e futuro. E c’è un errore da evitare: accontentarsi delle operazioni da vetrina, dell’antimafia in versione spot. Sarebbe un errore gigantesco. Ci vuole la normalità del rispetto delle regole, sentire la presenza dello Stato quando non ci sono telecamere, caschi bianchi e riflettori.

Fino a quando davanti ai pubblici ministeri, nel chiuso di un ufficio giudiziario, una vittima dirà: “Preferisco non nominarli perché ho paura” avranno vinto loro. Perché l’omertà non è un timbro territoriale: è riconoscimento dei poteri. Quando quello dello Stato non c’è, il silenzio è l’unica difesa e, per tutti, una sconfitta.

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