A chi si chiede perché il Tribunale di Genova, condannando un anno fa Bossi&co per truffa aggravata allo Stato, abbia deciso la confisca di oltre 49 milioni di euro, è importante spiegare che non si tratta solo del pasticciaccio brutto dei soldi del partito spesi per “The family”: dalle mutande del Senatur alle multe e lauree del Trota (per cui a Milano c’è stata una sentenza di condanna in primo grado), ma della violazione delle leggi per l’erogazione di quelli che vengono chiamati “rimborsi elettorali” come si legge nelle 130 pagine delle motivazione della sentenza di condanna emessa a Genova un anno fa. E poco importa ai giudici che dalle casse del Carroccio sia usciti, tramite i magheggi del tesoriere Francesco Belsito, nel quadriennio 2008-2011, 2 milioni 598mila euro non autorizzati né giusticati.

Quello che conta è che alla Camera e al Senato, furono presentati rendiconti falsi basati, stando ai consulenti della procura, su “macroscopiche e numerosissime irregolarità contabili“. E grazie a quei documenti il partito che fu guidato da Bossi, che firmava i bilanci, ed è oggi guidato da Matteo Salvini che lo ha ricandidato e a Pontida 2018 lo ha pubblicamente ringraziato, ottenne in totale quasi 76 milioni di euro per gli esercizi del 2008, del 2009 e del 2010. La legge 157/99 (poi sostituita dalla 96/2012), stabiliva che la liquidazione dei fondi (costituiti dai contributi volontari effettuati tramite destinazione del 4 per mille e parametrati al numero di voti ottenuti) fosse subordinata alla regolarità del rendiconto. Che doveva essere sottoscritto dal legale rappresentante o dal tesoriere, doveva essere accompagnato da una relazione del tesoriere sulla situazione economico patrimoniale del partito e sull’andamento della gestione nel suo complesso.

Al rendiconto doveva essere allegata una nota integrativa (atti, tutti, da stilarsi secondo modelli predefiniti, allegati alla legge) e la stessa legge stabiliva l’obbligo di regolare tenuta del libro giornale e del libro inventari e di conservazione, per almeno cinque anni, della documentazione di rilevanza amministrativa e contabile: quindi, pezze giustificative, estratti conto. Il comma 12 prevedeva che il rendiconto doveva inoltre essere accompagnato da una relazione dei revisori dei conti.

I giudici: “Inferta ferita all’andamento della vita parlamentare”
I falsi e la truffa allo Stato
, per i giudici, sono provati e “poiché i cosiddetti rimborsi elettorali sono parametrati ai voti ottenuti e cioè a quello che rappresenta il partito nella vita politica, lo scopo del rendiconto e della disponibilità delle pezze giustificative è quello di rendere trasparente e verifìcabile quello che è l’agire del partito nello svolgimento della vita politica: solo da un rendiconto veritiero, completo e trasparente consegue la possibilità di controllare che il denaro del partito, ivi compresi i rimborsi pubblici, non sia stato impiegato a fini illeciti (per corrompere, per fare compravendita di voti, o altre iregolarità) ai quali – per usare le efficaci parole di un difensore ‘la mano pubblica si ribella’”. Per i giudici “è pacifico che il movimento Lega Nord per l’indipendenza della Padania abbia percepito, attraverso l’accredito sui conti correnti a esso intestato, il profitto dei reati commessi dai suoi rappresentanti, Bossi e Belsito, con il concorso di Aldovisi, Turci e Sanavio (i revisori, ndr)”. E in base all’articolo 322 ter del codice penale in caso di condanna va “ordinata” la confisca. Senza dimenticare “il vulnus inferto al corretto andamento dell’attività parlamentare nella gestione di risorse pubbliche finalizzate a favorire il corretto esercizio della vita democratica, di cui i partiti e Parlamento sono diretta espressione”.

L'”incredibile” gestione contabile e l’ipotesi della “cassa occulta”
Il Carroccio dell’era Bossi aveva 9 conti correnti di cui due “noti” solo a Belsito. L’ex tesoriere oggi in una intervista a La Stampa dice che “nel 2012, la Lega Nord era un partito ricchissimo. Ricordo che sui conti c’erano più di 40 milioni di euro di cui dieci solo di riserva legale”. E infatti i conteggi dei consulenti nominati dagli inquirenti genovesi parlano di 258 milioni 136mila euro di entrate nelle casse del partito nel quadriennio 2008-2011: 76 milioni di rimborsi elettorali erogati dallo Stato, i versamenti dei parlamentari eletti, le quote associative e i tesseramenti, i contribuiti volontari e le entrate “residuali” per la vendita di gadget. Facili i conti per le spese tracciabili – assegni e bonifici – ma è stato un vero rompicapo ricostruire le uscite in contanti: degli oltre 3 milioni e 800mila euro il 67% delle spese erano “prive di documenti giustificativi: con ciò intendendosi non solo i documenti contabili rilevanti a fini fiscali, quali fatture, scontrini e simili, ma anche qualsivoglia scritto informale, quale nota spese o appunto manoscritto atto a fornire indicazioni sulla destinazione della somma”.

Ma in generale gli esperti hanno ricostruito a fatica la contabilità del partito perché “era ingovernabile e incontrollabile, assolutamente incompleta in spregio di qualsiasi principio di contabilità: non c’era un registro di cassa, niente periodiche riconciliazioni bancarie. Le scritture contabili erano inserite nel sistema informatico con sette-nove mesi di ritardo”, e infine “incredibile per una gestione contabile” la possibilità di integrare e modificare registrazioni degli anni precedenti e quindi per gli esercizi già chiusi e con rendiconto approvato. Per questo la segretaria Nadia Dagrada, con i consulenti della procura pronti a entrare in via Bellerio, doveva affrontare un vero e proprio “tour de force” per integrare il database per chiudere il rendiconto e depositare entro il 31 luglio alla Camera dei deputati nell’estate del 2012.

Ed è lei che in una famosa intercettazione – era il 7 febbraio del 2012 – diceva al tesoriere a proposito della famiglia Bossi: “Tu gli devi far capire che se questi vanno a vedere quelle che sono le spese, lui e la sua famiglia sono finiti. Lui e la sua famiglia rischiano di non … di non vedere non solo più un voto, ma di non avere più nulla a che spartire con la Lega e, poiché si tratta delle famiglia, non sono cose che compri tu, perché sono tutte per loro, perché le auto sono per loro, i ragazzi sono per loro, il figlio le spese sono loro, il diploma è loro, i lavori di casa sono loro”. Una previsione quasi del tutto sbagliata a oggi: Bossi è ancora senatore della Repubblica e il partito, stando ai sondaggi, vale il 30% dell’elettorato. È la Dagrada che, sorpresa di uscite mai ordinate, con gli inquirenti parla di una “cassa occulta” gestita da altri: “C’era un’altra cassa, evidentemente c’era una fonte che alimentava un’altra cassa”: “un’ipotesi avvalorata dal fatto – si legge nelle motivazioni – che in una occasione Belsito le consegnò una grossa mazzetta di banconote proveniente da un istituto di Credito (Bpn) di cui ella non era a conoscenza”. Figuriamoci i revisori.

Il revisore pentito: “Ho capito che il partito in realtà non era immacolato”
I revisori Diego Sanavio, Antonio Turci e Stefano Aldovisi anch’essi condannati a Genova, i primi due rispettivamente a due anni e otto mesi e il terzo un anno e nove mesi, sono accusati di aver eseguito un mero controllo formale dei bilanci che avveniva nel giro di pochi giorni mentre “si sarebbe dovuta svolgere nel corso dell’intero anno con ripetute verifiche e annotazioni delle operazioni”. I tre ricevevano una “bozza di certificazione, precompilata e il loro intervento era solo per eventuali errori di quadratura“. In due occasioni dalla Camera e Senato, negli anni precedenti, erano arrivate richieste di chiarimenti e il partito tramite i revisori aveva risposto e soddisfatto Roma. Ma il 25 luglio 2017 al nuovo tesoriere Stefano Stefani arriva una lettera in cui viene comunicata la sospensione di ogni rimborso elettorale in assenza di una certificazione adeguata che permetta ai revisori dei conti del Parlamento di dare un giudizio definitivo sulla regolarità dei conti. I tre vengono convocati per dare una risposta a Roma. Aldovisi – però scoppiato lo scandalo degli investimenti in Tanzania – si sfila: “Quello che ho capito è che sostanzialmente quel partito che sembrava così immacolato in realtà non lo era” dice agli inquirenti e alla riunione convocata in ottobre dal nuovo segretario Roberto Maroni, non si presenta. Mentre gli altri due, come ricorda Turci, vengono accolti dal nuovo leader a braccia aperte e con la frase “cari militanti”. Sono gli stessi giorni delle “ramazze” e del “far pulizia”. Salvini invece, dal 2 giugno 2012, è diventato il nuovo segretario Lega Lombarda dopo essere stato deputato alla Camera (2008) e nuovamente europarlamentare (2009): totalmente fuori dall’inchiesta. È pronto per la scalata; un anno dopo la bufera il 7 dicembre 2013 diventa lui il segretario e un anno dopo al Parlamento europeo ci arriva con il titolo di mister preferenze.

A gennaio scorso l’ex revisore Aldovisi si è presenta in procura a Genova a dire la sua sulla gestione di Maroni e Salvini e da allora gli inquirenti indagano per riciclaggio. Un’inchiesta che solo nei giorni scorsi è diventata di dominio pubblico quando i pm liguri hanno ordinato una perquisizione nella sede della banca Sparkasse a caccia di conti e del presunto tesoro. Per Salvini i soldi non ci sono perché sono stati spesi in 10 anni come del resto sembrano confermare gli stessi giudici. I magistrati nelle motivazioni della sentenza ribattono alla difesa Bossi, secondo cui non si sarebbe potuto procedere a confisca perché non più nella disponibilità della Lega, sottolineando che è vero che i soldi non ci sono più, ma anche se è una “circostanza compravata dalla produzione dei bilanci successivi a quelli del triennio 2008-2010 che evidenziano disavanzi di esercizio; si osserva, in primo luogo che un disavanzo di bilancio non corrisponde necessariamente a mancanza di disponibilità liquide…”. Per i giudici di Genova quindi la confisca è comunque consentita e lo è anche per le toghe della Cassazione che hanno stabilito che i soldi vanno sequestrati ovunque siano.

Gli ispettori di Bankitalia e la caccia al tesoro
La procura di Genova però non dispera di venirne a capo e ha nominato gli ispettori della Uif, Unità di informazione finanziaria di Bankitalia, consulenti per districarsi nel labirinto che dal Lussemburgo porta in Italia, a Bolzano e Milano, e indicare se i soldi custoditi in un fondo fiduciario siano della Lega. Gli ispettori sono gli unici a potere analizzare i vari movimenti e passaggi i cui “segreti” sono forse nascosti tra la documentazione e l’archivio informatico sequestrati durante le perquisizioni alla banca Sparkasse. Saranno loro, in pratica, a dire se quei soldi trasferiti all’estero siano una parte dei 49 milioni di euro che devono essere restituiti allo Stato. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, la Sparkasse aveva trasferito in Lussemburgo in un fondo fiduciario 10 milioni di euro, subito dopo le elezioni del 4 marzo, l’autorità lussemburghese ha bloccato per dieci giorni il trasferimento di tre milioni di euro dal Granducato all’Italia e informato i colleghi italiani sul sospetto dell’operazione che potrebbe essere riconducibile ai conti del partito leghista. Della movimentazione viene anche informata la magistratura genovese che già a gennaio aveva aperto l’inchiesta per riciclaggio dopo l’esposto di Aldovisi. La Sparkasse però sostiene che quei 10 milioni di euro sono solo dell’istituto bancario e che il trasferimento è legato a ordinarie operazioni di investimento. 

Il sospetto degli investigatori delle Fiamme gialle è che quello possa essere una parte del tesoro e contemporaneamente stanno esaminando l’intreccio di società, associazioni e fiduciarie che sono state create durante il processo a Bossi, Belsito e i revisori. Sotto la lente ci sono almeno una quindicina di “satelliti”: bisogna stabilire se abbiano ricevuto soldi dal partito o per il partito o se siano soggetti autonomi. Intantoè slittata al 17 luglio la requisitoria che il sostituto procuratore generale Enrico Zucca terrà nel processo di secondo grado e che era prevista oggi. Nelle scorse settimane avevano chiesto di patteggiare una pena di due anni gli imprenditori Paolo Scala e Stefano Bonet, condannati a 5 anni ciascuno in primo grado, per aver aver collaborato a far girare tra Cipro e la Tanzania oltre 7 milioni sottratti da Belsito dai conti del Carroccio, questi sì all’insaputa dei vertici.

@trinchella

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