Per smantellare la politica ambientale del suo predecessore ha scelto il piccone, ma i colpi di Trumpl’ultimo è l’ordine esecutivo in favore delle fonti fossili – probabilmente non basteranno a far venire giù tutto l’apparato normativo messo in campo da Obama. “Tra il voler fare e il fare davvero si frappongono molti passaggi intermedi e diverse resistenze. Le politiche sul clima potranno essere fatte diversamente, potranno rallentare, ma non saranno annientate da Trump”, sintetizza Stefano Caserini, docente del Politecnico di Milano e autore del libro Il clima è (già) cambiato.

Tra il dire e il fare
Come sempre, bisogna distinguere tra ciò che appare e ciò che è. Il messaggio mediatico che passa dalle scelte di Trump in materia ambientale è potentissimo. È il colpo di mano che parla alla pancia dell’America conservatrice, delusa, arrabbiata. Nel testo dell’ordine esecutivo, Trump fa chiaro riferimento agli “oneri che inutilmente gravano sulla produzione di energia, limitano la crescita economica, e impediscono la creazione di posti di lavoro”. Il presidente dà un indirizzo preciso, sancendo qualche pagina dopo la necessità di una “revisione immediata delle azioni di tutte le agenzie (…) che potenzialmente gravano sullo sviluppo o sull’utilizzo di risorse di produzione domestica di energia, con attenzione particolare a petrolio, gas naturale, carbone ed energia nucleare“. L’atto revoca una serie di provvedimenti varati da Obama, minando così la ricerca sulle tecnologie pulite e le iniziative di cooperazione internazionale per lo sviluppo sostenibile.

Se si guardano però le conseguenze effettive della misura, queste appaiono molto più diluite e incerte, almeno nel medio periodo. Innanzitutto perché l’uscita dall’accordo di Parigi appare abbastanza improbabile, così come anche l’abbandono dello Unfccc, la cornice Onu nel cui ambito si sono stabiliti gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Più probabile che l’amministrazione decida di svuotare dall’interno tutte quelle misure messe in atto da Obama per rispettare gli impegni presi, ma si troverà davanti una serie di ostacoli non di poco conto.

Opposizione interna
Se infatti la ratifica dell’atto da parte del Congresso, necessaria per la sua validità, è quasi scontata vista la forte maggioranza repubblicana, la sua applicazione concreta deve passare attraverso le Agenzie federali – a capo dell’Epa Trump ha messo un uomo di sua fiducia, Scott Pruitt, ma sul comportamento delle altre l’incognita rimane – e una serie di altri soggetti. “Sono coinvolti gli Stati, molti dei quali hanno messo in campo politiche decise di contrasto ai cambiamenti climatici, come California, Oregon e Colorado. Ci sono le grandi città, anch’esse attive su questo fronte, e poi ci sono potenti lobby contrarie a un ritorno in voga delle fossili, da quella delle rinnovabili a quella della finanza, fino ai gruppi assicurativi preoccupatissimi dall’impatto che gli effetti del riscaldamento globale avrebbero sui loro utili”, ragiona Marcello Di Paola, ricercatore della Luiss esperto di dinamiche internazionali legate ai cambiamenti climatici. Presto sarà chiaro, prosegue, che “una politica a favore delle energie sporche fa gli interessi di poche compagnie e non è in grado di avere effetti occupazionali significativi. Metterebbe anzi in forse i 15 trilioni di dollari di investimenti in rinnovabili attivi negli Usa”.

Una strategia, insomma, contraria alle dinamiche del mercato, dove le energie pulite sono sempre più competitive. E poi bisogna considerare anche i tempi: “Tra due anni ci sono le elezioni di mid term, che potrebbero ridisegnare gli equilibri restituendo un Congresso meno propenso a sostenere Trump – aggiunge Caserini – Quale investitore è disponibile a destinare risorse a progetti che nel giro di 24 mesi potrebbero di nuovo subire una battuta d’arresto e che vanno nella direzione contraria al resto del mondo?”.

La solitudine degli Usa
Il resto del mondo, appunto. La politica di Trump sta indubbiamente dando nuova forza alle lobby fossili, ma quali tra gli oltre 190 Paesi che hanno firmato l’accordo di Parigi se la sentirà di portare il peso politico di un allineamento agli Usa? “La loro posizione è anacronistica e non supportata da basi scientifiche”, fa notare Di Paola. “Così gli Stati Uniti rinunciano a una leadership economica e nel campo dell’innovazione tecnologica, oltre che politica e diplomatica”. Un vuoto di potere di cui Cina e India cercheranno sicuramente di approfittare. I Brics, spiega Di Paola, “non rinunceranno alle politiche climatiche. Per loro lo sviluppo sostenibile si salda anche con fattori sociali di aumento del benessere e accesso all’energia della popolazione. Su questa base sono stati fatti anche accordi bilaterali con gli Usa, il cui mancato rispetto darebbe luogo sicuramente a una serie di battaglie legali”. Dopo il varo dell’ordine esecutivo, la Cina, per mezzo del portavoce del ministero degli Esteri, ha fatto sapere di non essere intenzionata a fare passi indietro sulla scia del cambio di rotta americano: “Il cambiamento climatico è una sfida comune per tutti e l’accordo di Parigi è stato un punto di riferimento che è nato dal duro lavoro della comunità internazionale, compresi Cina e Stati Uniti“.

E l’Europa? Il commissario Ue all’Energia e clima Miguel Aries Canete, non certo famoso per le sue posizioni coraggiose, ha scritto in una nota: “Ci rammarichiamo che gli Stati Uniti stiano tornando indietro sul pilastro principale della loro politica climatica, il Piano energia pulita. Ora resta da vedere con quali altri mezzi gli Usa intendano far fronte agli impegni che hanno sottoscritto con l’accordo di Parigi”. Certo è che il passo indietro degli Usa è un’occasione ghiotta anche per Bruxelles di rafforzare la propria leadership. “Paesi come Germania e Olanda campioni di innovazione tecnologica ne trarranno beneficio“, dice Di Paola. Mentre i Paesi dell’Est, Polonia in testa, aggiunge Caserini, “continueranno probabilmente a ostacolare le politiche europee sul clima, anche se bisogna tenere conto che non sono loro a dettare la linea. In generale ci può essere il rischio di un rallentamento dell’azione europea“. Sull’Italia la partita è aperta: “Avrà un ruolo importante, vedremo come intenderà giocarselo. Se intenderà mettere in campo azioni ambiziose, o accodarsi alla Polonia come accaduto al momento della ratifica europea dell’Accordo sul clima di Parigi“.

Prime vittime
Intanto, nel settore ambientale c’è già una prima vittima dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca. È l’Ega, l’accordo in sede di World Trade Organization per liberalizzare il commercio internazionale di beni green. Alessia Mosca, eurodeputata del Pd che presiede il gruppo di monitoraggio sulle trattative a Strasburgo, non nasconde lo sconforto: “La visione ciecamente e testardamente protezionistica di Trump nei confronti del commercio e la sua avversità alla causa ambientale, purtroppo, non ci fanno ben sperare. L’accordo sarebbe stato particolarmente coerente con la spinta voluta da Obama al settore delle tecnologie green. In maniera simile a quanto fatto a Bruxelles, la scorsa amministrazione aveva, infatti, adottato un approccio globale alla questione ambientale”. Nell’autunno 2016 i negoziati sembravano vicini a un risultato, ma il cambio di inquilino a Washington ha raffreddato il dialogo tra le parti.

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