Vittorio Sgarbi, Arnaldo Forlani, Renato Altissimo, Giancarlo Cito, Aldo Brancher e Massimo Abbatangelo possono stare sereni. E con loro possono dormire sonni tranquilli una lunga schiera di ex parlamentari come Gianni De Michelis, Paolo Cirino Pomicino, Cesare Previti, Marcello Dell’Utri e anche Silvio Berlusconi, per quello che, per uno ricchissimo come lui, quel bonifico mensile può valere. Il loro assegno pensionistico difficilmente potrà essere revocato. Nonostante le richieste avanzate in Senato al presidente Piero Grasso dal questore del Movimento 5 Stelle Laura Bottici e nonostante le sollecitazioni che arrivano anche dall’altra Camera presieduta da Laura Boldrini, da cittadini e movimenti. A dirlo non è una persona qualsiasi, ma un illustrissimo giurista, Cesare Mirabelli, ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e presidente emerito della Corte costituzionale. A Mirabelli si sono rivolti i vertici di Palazzo Madama per avere un parere su uno schema di delibera con il quale si ipotizza la cancellazione dei vitalizi per gli ex senatori condannati (ma la questione tocca ovviamente anche gli ex deputati). Secondo Mirabelli la revoca presenterebbe diversi profili di incostituzionalità. Vediamo perché.

La delibera, messa a punto dal Consiglio di presidenza, prevede «la cessazione dell’erogazione dei trattamenti previdenziali a titolo di assegno vitalizio o pensione a favore dei senatori cessati dal mandato» che abbiano riportato «condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione» per reati (consumati o tentati) di mafia, corruzione e contro la pubblica amministrazione; oppure «condanne definitive superiori a due anni di reclusione» per delitti non colposi (consumati o tentati) per i quali la legge prevede la reclusione «non inferiore nel massimo a quattro anni».

Delibera alla mano, Mirabelli avverte che «la cessazione della erogazione di un trattamento previdenziale», ossia «la perdita di un diritto quale effetto automatico e consequenziale di una condanna penale», per altro legata «esclusivamente» alla «durata della pena detentiva», va analizzata nell’ambito della disciplina delle pene accessorie. Ambito in cui opera, innanzitutto, il vincolo «della riserva assoluta di legge». In sostanza, osserva Mirabelli, si manifesta «la inidoneità della fonte regolamentare (la delibera, ndr) parlamentare a disciplinare questa materia e ad introdurre una nuova ed aggiuntiva sanzione». Cioè la revoca del vitalizio.

Poi c’è l’ulteriore vincolo «della tassatività e della irretroattività della stessa legge penale» in virtù del quale «ogni intervento sanzionatorio è applicabile solo se la legge lo prevede al momento della commissione del fatto sanzionato». Vale a dire al momento della commissione del reato. Secondo il presidente emerito della Corte Costituzionale collegare la cessazione dell’erogazione dell’assegno ad una condanna penale «può costituire un pericolo per la indipendenza nell’esercizio della funzione, garantita anche mediante l’indennità» parlamentare «e la sua proiezione temporale che si concreta nel successivo e collegato trattamento previdenziale». Insomma, la revoca del vitalizio, potrebbe essere «strumento di possibile condizionamento mediante la denuncia o l’iniziativa penale per una larga serie di reati che non comportano la perdita dell’elettorato passivo, ma che potrebbero comportare la perdita di una delle garanzie economiche previste per proteggere il libero svolgimento della funzione parlamentare».

La qualificazione previdenziale sia del vitalizio sia dell’attuale pensione dei parlamentari riformata seconto il sistema contributivo qualche anno fa, «porta ad escludere la legittimità della perdita del diritto alla erogazione delle prestazioni per effetto di condanna penale». Al riguardo una sentenza della Consulta del 1966 ha dichiarato illegittima la privazione «degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico, salvo i trattamenti e le pensioni “di grazia”, non aventi titolo in un rapporto di lavoro».

L’intangibilità del diritto previdenziale pensionistico, prosegue il parere di Mirabelli, è confermata da una legge del 2012 che ne prevede la revoca, come sanzione accessoria da irrogare a seguito di condanna per alcuni reati di particolare gravità, solo nel caso in cui «sia stato accertato» con sentenza separata che «il rapporto previdenziale abbia avuto origine in un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attività illecite connesse con uno dei reati indicati». E nessuna rilevanza può avere il fatto che il diritto alla pensione «sia originato da un rapporto di lavoro dipendente, oppure da altra attività o funzione». Compresa evidentemente la funzione parlamentare. «Una diversità di trattamento – osserva Mirabelli – non apparirebbe giustificata e configurerebbe una disparità di trattamento in contrasto con il principio di eguaglianza».

Infine, c’è il profilo della retroattività della «revoca di un diritto previdenziale in godimento». Cioè di un diritto acquisito. La soppressione di un trattamento pensionistico in atto, sia pure a fronte della restituzione dei contributi versati detratte le somme già corrisposte prevista dalla delibera, conferma «la retroattività della disciplina». Che, in materia previdenziale, «tocca diritti di rilievo costituzionale, la cui incisione richiede una adeguata giustificazione».

In sostanza, conclude il parere, «pur ammettendo che si possano toccare retroattivamente diritti previdenziali acquisiti, certamente non trova adeguata giustificazione la completa ablazione o la perdita del diritto pensionistico». Per cui, risultano «plurime e rilevanti le criticità costituzionali dello schema di deliberazione esaminato, il cui contenuto incide per più profili su garanzie costituzionali».

 

 

 

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