di Antonio Marino

Le limitazioni di diritti costituzionalmente garantiti, come il diritto del cittadino ad essere informato su notizie di interesse pubblico, sono giustificate solo laddove esse siano necessarie e proporzionate alla tutela di un altro diritto o valore costituzionalmente protetto.

Il divieto, sottoposto ora al vaglio del Senato, di pubblicazione delle ordinanze applicative di misure cautelari prima della chiusura delle indagini preliminari rappresenterebbe un grave vulnus non solo rispetto all’art. 21 della Costituzione, ma anche rispetto all’essenza stessa del principio democratico. La pubblicità di un atto, come l’ordinanza cautelare, costituisce uno strumento non solo conoscitivo ma anche di controllo da parte della collettività sull’imparzialità dell’esercizio delle pubbliche funzioni, nel caso di specie di quella giurisdizionale. Il divieto sarebbe un altro duro colpo per la stampa italiana che sconta già gravi deficit di libertà.

L’informazione, nelle società democratiche, dovrebbe essere non strumento al servizio del potere, ma mezzo per la collettività di garanzia e di controllo pubblico sull’esercizio del potere. Ora, l’interesse alla pubblicazione di atti pubblici può essere limitato solo ove sussista una preminente esigenza di tutela di altri valori costituzionali parimenti meritevoli. Certamente la Carta riconosce la presunzione di non colpevolezza di indagati/imputati prima del giudicato di condanna. E tuttavia, l’ordinanza che applica una misura cautelare svolge una funzione diversa dalla pena, dal momento che essa interviene in una fase antecedente alla formazione di un giudicato. L’ordinanza cautelare non determina una trasformazione dello status del destinatario: l’indagato/imputato resta tale e non diviene un condannato.

Se l’ordinanza cautelare è compatibile con la presunzione di non colpevolezza, non si comprende la ragione per cui vietarne l’integrale pubblicazione. La notizia per cui Tizio indagato sia stato sottoposto a misura cautelare nell’ambito di quel procedimento penale non implica un giudizio di colpevolezza di Tizio: è cronaca giudiziaria di un fatto. Se Tizio è, poi, un personaggio di rilievo pubblico o che svolga una pubblica funzione, è interesse della collettività esser messa a conoscenza della circostanza che ricorrono gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari a carico di Tizio in ordine ad una certa notizia di reato.

La censura non solo impedisce l’esercizio di tale diritto ma costituisce la prima arma di controllo delle masse e di conservazione del potere. Il “bavaglio” si inserisce in un solco già tracciato dalla riforma Cartabia nella parte in cui, sempre in nome della presunzione di non colpevolezza, vieta alle autorità pubbliche di “indicare pubblicamente come colpevole l’indagato o l’imputato fino a quando la colpevolezza non sia accertata con sentenza o decreto penale di condanna divenuti irrevocabili”. La norma consente solo al dirigente dell’ufficio giudiziario con conferenza ufficiale di interloquire con la stampa in presenza di inchieste di rilevante interesse pubblico e sempre col divieto di qualsiasi espressione possa implicare un giudizio di colpevolezza dei destinatari della misura. La conseguenza è che viene rimessa alla discrezionalità del procuratore capo l’individuazione dell’inchiesta che sia di rilevante interesse pubblico: la norma costituisce un’indubbia lesione della libertà di informazione.

Ciononostante la politica non si era ancora spinta sino al punto di vietare alla stampa anche la pubblicazione di un atto giudiziario pubblico. Quale partecipazione della collettività alla cosa pubblica garantisce una norma che vieti anche solo di conoscere il contenuto di un atto giurisdizionale pubblico? È evidente come il divieto miri precipuamente a far calare un velo sulle inchieste che colpiscono il potere politico, impedendo la pubblicazione di atti che potrebbero comprometterne il consenso.

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