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Paura della firma e richieste di commissari ad hoc: così si sancisce l’irrilevanza dei politici

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A sancire l’irrilevanza dei politici, se non per i costi esorbitanti della pletora di occupatori di posti sovente creati ad arte per premiare i portatori di voti, si vanno diffondendo da un lato le lamentazioni degli eletti, hanno la “paura della firma”; dall’altro, quando sono in difficoltà, le richieste a ogni piè sospinto della nomina di un commissario ad hoc (figura originariamente prevista per catastrofi e calamità) destinato ad assumersi gli oneri del fallimento degli eletti.

La teoria della “paura della firma” si fonda sull’idea che i pubblici amministratori, siano essi politici eletti o dirigenti e funzionari pubblici, sono frenati nella loro azione dalle possibili indagini della Magistratura, da procedimenti della giustizia penale civile e amministrativa, dal rischio di eventuali condanne e/o richieste di risarcimento. Di solito il tema viene evocato quando qualche amministratore o dirigente finisce nei guai per atti connessi all’esercizio del suo mandato o incarico dirigenziale. Gli esempi sono innumerevoli: dal sindaco di Lodi (turbativa d’asta, prima condannato, poi assoluzione, annullata dalla Cassazione), al sindaco di Fiumicino condannato dalla Corte dei Conti con due dirigenti a risarcire il comune. Un loro collega, raggiunto da una richiesta analoga, piagnucola: “È surreale: ora dobbiamo avere anche il timore di firmare le delibere. Di questo passo nessuno vorrà più fare l’amministratore in Italia”, ignorando che quella è esattamente la sua responsabilità, quella per cui si è volontariamente candidato ed è stato eletto. Posto appetibile: infatti a ogni elezione calano gli elettori, ma aumentano i candidati.

I sindaci dei comuni medi e grandi, poi, non sono dei poveretti sottopagati e oberati di responsabilità, costantemente in bilico fra ufficio e galera perché la giustizia li perseguita senza tenere conto delle difficoltà in cui versano gli enti che loro governano. Una rapida comparazione fra i loro curriculum e le tabelle delle indennità evidenzia che parecchi di loro guadagnano ben di più di quanto mai avrebbero potuto immaginare se avessero dovuto trovarsi un altro lavoro. Qualche numero: fino a 3000 abitanti al sindaco vanno € 2032 mensili (dal 2024 saranno € 2.208); fino a 5.000 abitanti € 2689 (€ 3036); fino a 10.000 abitanti € 3.707 (€ 4.002); fino a 30.000 abitanti € 4.280 (€ 4.140); fino a 50.000 abitanti € 4.280 (€ 4830); fino a 100mila abitanti € 5.412 ( € 6.210); poi ci sono le maggiorazioni per i comuni capoluogo di provincia, di regione, di città metropolitana, per i quali si va dai circa 10mila mensili attuali ai 13mila previsti per il 2024. Vice e assessori a ruota.

Poi ci sono i dirigenti, il cui compito – lo dice la qualifica – è quello di dirigere, per questo sono pagati più degli altri dipendenti. Hanno uno stipendio che si compone di tre voci principali: lo stipendio vero e proprio, l’indennità di funzione determinata dalle mansioni che svolgono, alla quantità e tipologia dei dipendenti che dirigono, l’indennità di risultato (a fronte degli obiettivi dati, si valutano i risultati effettivamente ottenuti). Alla fine è difficile trovare un dirigente pubblico che guadagni meno di 90mila l’anno. Non è poco, qualche responsabilità possono perfino assumersela. Non risultano casi significativi di dirigenti e funzionari in fuga dai loro uffici per andare a fare più tranquilli lavori di archivisti, bibliotecari o addetti al catasto: la corsa è nell’altra direzione.

La dirigenza pubblica gode di prerogative che la mettono al riparo da pressioni indebite, a condizione però di non dovere la propria nomina al potere politico. La legge ha provveduto negli anni Novanta a separare l’ambito amministrativo da quello politico, ma quando la nomina avviene per incarico fiduciario, la separazione viene meno e si ritorna alla sudditanza che si riteneva superata. Al netto dei comportamenti dolosi, chi ha un po’ di esperienza sa che i problemi della Pubblica Amministrazione non nascono dall’applicazione delle regole, ma dai tentativi di forzatura: ritardi nella gestione di appalti e contratti, errori nelle valutazioni iniziali, istruttorie carenti e così via. O anche perché, invece di respingere le indebite pressioni, si tenta di conciliarle con regole che non le contemplano. Per un dirigente tenere la schiena dritta è più difficile quando lo è in virtù di un incarico del politico di turno, invece che vincitore di un concorso pubblico.

Da qualche tempo alla “paura della firma” si è aggiunto il vezzo di invocare la nomina di commissari ad hoc a fronte delle necessità di realizzare opere di particolare complessità, ferme al palo da troppo tempo. Dalla diga foranea di Genova, alla linea 2 dalla Metro torinese, alla Città della Salute, sempre a Torino, all’ultimo tratto dell’autostrada Asti-Cuneo, al Terzo valico e a un sacco di altre opere ancora. In una singolare convergenza, amministratori di destra e omologhi di sinistra chiedono che vengano assegnati a un commissario compiti e funzioni che spetterebbero a loro in quanto eletti. Giustificano la richiesta con la burocrazia asfissiante e illogica, fanno credere che il commissario farà ciò che loro non sono nelle condizioni di fare.

Primo paradosso: la politica, mentre vara il Codice dei Contratti Pubblici, nomina i commissari perché realizzino le opere in deroga a quanto ha appena stabilito. Secondo paradosso: le norme, come quelle del Codice degli Appalti, sono scritte dai consiglieri dei Ministri. Questi provengono quasi tutti dal Consiglio e dall’Avvocatura dello Stato, sono lautamente pagati per scrivere leggi e poi fare i commissari in deroga alle stesse.

Siccome queste e altre contraddizioni sono ben presenti alla politica che conta, il sospetto è che lo svilimento del ruolo degli eletti e della dirigenza pubblica sia un disegno tenacemente perseguito per minare la democrazia sostanziale. I politici è più facile incontrarli a qualche convegno a vantarsi antifascisti, mentre picconano con decisioni e comportamenti il sistema di valori e di idee della Costituzione repubblicana. Così si va facendo strada la convinzione che la democrazia è un lusso che non possiamo permetterci perché non va veloce, non permette di fare: meglio un commissario. Non “podestà”, perché è di un’epoca morta e sepolta. L’antifascismo si praticherà agitando lo spauracchio del reducismo di quattro balordi, così da oscurare il declino dello Stato repubblicano. Prove di totalitarismo del terzo millennio.

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