di Leonardo Botta

È quasi pronto il disegno di legge per il ripristino dell’elezione diretta di presidenti e consigli delle province italiane. La norma manderà in soffitta la legge 56/2014 “Delrio”, con la quale gli organismi di governo di questi enti intermedi erano eletti non dai cittadini, ma da e tra sindaci e consiglieri dei comuni appartenenti. Questo progetto di “controriforma” è stato legittimamente proposto della maggioranza di centrodestra; ho l’impressione che non sia inviso nemmeno alle opposizioni, per i motivi che dirò.

Vorrei formulare qualche considerazione in merito.

Ricordo innanzitutto che la Delrio nasceva quale norma transitoria, in attesa della riforma costituzionale di Renzi che aveva l’obiettivo di sopprimere le province dalla Costituzione. Il referendum del 2016, bocciato dagli italiani, ha reso monco quel processo.

Le province hanno continuato a funzionare in questi nove anni: i presidenti eletti con questo meccanismo di secondo livello, insieme con i consiglieri provinciali (a cui vengono affidate le varie deleghe – non esiste più la figura dell’assessore) hanno seguitato a gestire, senza ricevere compenso, le materie che la Delrio aveva loro affidato: in particolare l’edilizia scolastica e la viabilità, oltre ad alcune deleghe su ambiente e lavoro. Il resto delle funzioni sarebbero dovute passare, secondo un meccanismo di gradualità che si è rivelato farraginoso, alle città metropolitane e alle regioni.

Si pone ora una domanda: è stata così fallimentare la riforma Delrio? Da più parti si sostiene di sì; anche la Corte dei Conti, con una recente relazione, si è espressa negativamente sulla L. 56, evidenziando criticità in ordine a difficoltà e disomogeneità nei meccanismi di trasferimento di competenze dalle province agli altri enti, a fronte di un risparmio per le casse dello Stato rivelatosi modesto: il rapporto della Corte riferisce di una riduzione delle spese degli Organi Istituzionali provinciali, nel periodo 2013-16, di appena 70 milioni. Secondo il tribunale contabile il ripristino dell’elezione diretta non dovrebbe comportare oneri particolarmente impattanti (ho letto che il governo stanzierà circa 200 milioni per l’attuazione della riforma).

Va tutto bene, insomma, abbasso la Delrio e viva l’elezione diretta delle province? Direi di sì, ma consentitemi di avanzare qualche perplessità.

Sottolineo, intanto, come ancora una volta si sancisca il principio di sopravvivenza di tutti i livelli di governo di area vasta, mentre da tempo in Italia si era aperto un fronte di dibattito sull’eccessiva ridondanza e onerosità delle amministrazioni locali (da più parti si è sostenuto che uno, tra le regioni e le province, fosse un ente di troppo: a sostenerlo era non solo Renzi, ma lo stesso Berlusconi nel 2008).

Il ripristino dell’elezione a suffragio universale degli consigli provinciali dovrebbe riassegnare nuovi capitoli di spesa ai propri organi esecutivi; i quali, una volta ristabilito il rapporto diretto con l’elettorato, potrebbero essere tentati di allentare i cordoni della borsa in mille rivoli (ricordo i tempi in cui le province finanziavano allegramente sagre e altre amenità). Immagino che alla politica italiana (di destra, centro o manca) faccia inoltre gola il migliaio di incarichi retribuiti per presidenti e consiglieri, nel tempo in cui ancora riecheggia il taglio di 345 seggi in Parlamento.

Nondimeno potrebbero ripresentarsi pulsioni che hanno visto proliferare, nei decenni scorsi, il numero di amministrazioni provinciali: il caso più eclatante fu quello della Sardegna, che le aveva aumentate fino al considerevole numero di otto, salvo poi ridurle di nuovo. Del resto, la tendenza della politica italiana a moltiplicare improbabili enti era diventata proverbiale con il libro di Rizzo e Stella La casta, il cui incipit raccontava di una comunità montana pugliese che aveva l’invidiabile primato della vetta più alta (un “cocuzzolo himalaiano”) a quota 86 metri s.l.m., 12 in meno del campanile di Venezia!

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