“Ce lo chiede l’Europa”. E’ così, pur con altre parole – “scelta legata alle imminenti scadenze Ue” – che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha spiegato la decisione di intervenire per decreto legge sul governo societario delle banche popolari. Stabilendo che le dieci più grandi, cioè Banco Popolare, Ubi, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca popolare di Milano, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare di SondrioBanca Etruria, Credito Valtellinese e Popolare di Baridovranno dire addio al “voto capitario” (una testa un voto) e diventare società per azioni. Una riforma, quella varata mercoledì, di cui si parla da almeno 20 anni. Ma che ora, secondo il governo di Matteo Renzi, è diventata di particolare urgenza. Tanto da giustificare – scatenando le critiche di Forza Italia, M5S e Lega Nord – il ricorso allo strumento del decreto. Il che permetterà all’esecutivo di inserire questo intervento nella lista delle riforme già messe in cantiere che dovrà essere inviata alla Commissione Ue “entro questa settimana”, come anticipato due giorni fa dal commissario Ue agli Affari economici Pierre Moscovici. Ma, anche al netto degli eventuali intoppi nel successivo iter parlamentare del decreto, la svolta per forza di cose sarà tutt’altro che immediata. Dopo l’entrata in vigore del provvedimento, infatti, per prima cosa la Banca d’Italia dovrà intervenire emanando le necessarie disposizioni attuative. Ed è solo da quel momento che scatterà il conto alla rovescia di 18 mesi per consentire agli istituti di adeguarsi, convocando l’assemblea che dovrà votare la trasformazione in spa.

L’aspetto che promette di suscitare più polemiche tra i vertici e i soci delle popolari, comunque, è un altro: il primo comma del decreto, rimaneggiato fino all’ultimo dai tecnici di Palazzo Chigi, dispone che via Nazionale possa limitare il diritto di recesso dei soci, “anche in deroga a norme di legge“, “laddove ciò sia necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca”. Tradotto: i soci che volessero uscire dal capitale, opzione garantita dal codice civile in caso di “trasformazione della società”, potranno essere obbligati a rimanere se questo sarà necessario per scongiurare una riduzione del capitale sotto l’asticella fissata, ora, dalla Vigilanza bancaria unica esercitata dalla Bce. “Una scelta molto forte: parliamo di un diritto riconosciuto dalla legge”, spiega a ilfattoquotidiano.it Angelo Baglioni, ordinario di Economia all’università Cattolica. “C’è da aspettarsi che le disposizioni di Bankitalia chiariscano che si tratterà, perlomeno, di una limitazione temporanea per evitare un esodo di massa in corrispondenza con la riforma”. Ma è tutta da verificare la solidità costituzionale di una disposizione di questo tipo. Nessun commento per ora dai vertici di Assopopolari, che si riuniranno giovedì per fare il punto e decidere il da farsi. Possibile, stando a indiscrezioni, anche un ricorso per contestare l’incostituzionalità della misura.

I soci potranno essere obbligati a rimanere se sarà necessario per scongiurare una riduzione del capitale sotto l’asticella fissata dalla Vigilanza bancaria

Il decreto, che al contrario delle bozze non abroga tout court l’articolo 30 del Testo unico bancario, stabilisce anche che le popolari con attivi superiori a 8 miliardi di euro che non si trasformeranno in spa verranno sanzionate da via Nazionale, che “potrà adottare il divieto di intraprendere nuove operazioni” e arrivare fino a disporre “liquidazione coatta amministrativa”. Per la trasformazione in spa, peraltro, basteranno in prima convocazione i due terzi dei voti dei soci della banca, “purché all’assemblea sia rappresentato almeno un decimo dei soci della banca”. Stessa maggioranza per la seconda convocazione, ma in questo caso “qualunque sia il numero dei soci intervenuti”. Il testo stabilisce anche che “in deroga a quanto previsto dal codice civile, gli statuti delle banche popolari determinano il numero massimo di deleghe che possono essere conferite ad un socio. In ogni caso, questo numero non è inferiore a 10 e non superiore a 20”.

Per la trasformazione in spa basteranno in prima convocazione i due terzi dei voti dei soci 

Intanto, dopo il rally iniziato lunedì sulla scorta delle indiscrezioni sul decreto, a Piazza Affari gli istituti continuano a segnare fortissimi rialzi. Il Banco Popolare ha chiuso la seduta a +9,8%, seguito da Bpm (+3,6%), Bper (+3,2%) e Ubi (+3%). Tra le “piccole” Banca Etruria – di cui è vicepresidente Luigi Boschi, padre del ministro Maria Elena – ha segnato addirittura +27,28%, davanti alla Popolare di Sondrio (+11,2%) e al Creval (+10,9%). Il mercato apprezza, evidentemente, la prospettiva di una maggiore contendibilità, cioè, spiega Baglioni, “il fatto che dopo la trasformazione sarà possibile acquistare un pacchetto “pesante” di azioni e farlo valere in assemblea per chiedere, per esempio un ricambio del management. Oggi, al contrario, qualunque sia il numero di azioni possedute ogni azionista ha un solo voto, per cui finiscono per contare solo le coalizioni di soci vicine ai vertici e i soci-dipendenti, più attivi nelle assemblee”. Di conseguenza i grandi investitori istituzionali saranno incentivati a puntare su questi istituti molto più di quanto avvenuto fino ad ora. Sullo sfondo, ovviamente, anche la scommessa sulle possibili fusioni e acquisizioni. Che potrebbero non limitarsi al recinto delle popolari bensì, secondo molti analisti, vedere come prede anche Carige e Monte dei Paschi, alle prese con i piani di ricapitalizzazione che si sono resi necessari dopo la bocciatura agli stress test della Bce e con la successiva richiesta di rafforzare ulteriormente il proprio coefficiente patrimoniale minimo, cioè il rapporto tra il capitale di maggior pregio e le attività pesate per i relativi rischi. Qualcuno ha notato che due giorni fa Filippo Sensi, portavoce e braccio destro di Renzi, ha “ritwittato” un’analisi di Reuters in base alla quale “vendere una banca quotata a una popolare, l’unica vera opzione, sarebbe una cattiva pubblicità”, mentre a valle della riforma diventerebbe possibile “una fusione tra Mps e una delle maggiori popolari, come Ubi. Ne risulterebbe una nuova entità con il 12% di quota di mercato del credito in Italia”.

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