Mafia, ‘ndrangheta ed eminenze grigie: sono questi gli interessi che si nascono dietro l’omicidio di Bruno Caccia, il capo della Procura di Torino ucciso il 26 giugno 1983 e di cui non si conoscono ancora i killer. L’accusa arriva dai familiari del magistrato assassinato a colpi di pistola mentre portava a passeggio il cane sotto casa. Un omicidio clamoroso, unico caso di magistrato ucciso dalla ‘ndrangheta nel nord Italia, ancora avvolto dal mistero e inspiegabilmente dimenticato. Unico condannato il boss Domenico Belfiore, all’ergastolo come mandante. “Ci sono magistrati a Torino e Milano che sanno cosa è avvenuto a monte dell’attentato di Bruno Caccia e durante i depistaggi che lo hanno seguito”, ha denunciato ieri sera l’avvocato Fabio Repici, legale dei familiari di Caccia, durante un incontro pubblico organizzato dalla Commissione antimafia di Milano. “Il processo sulla morte del procuratore è stato gambizzato sin dall’inizio dal magistrato che in quegli anni conduceva le indagini, ovvero il pm Francesco Di Maggio”, ha accusato il legale. Dopo più di trent’anni i familiari hanno presentato una denuncia alla Procura di Milano perché riapra le indagini sul caso. Secondo Repici, il procuratore Caccia è stato ucciso perché stava conducendo delle indagini sul Casinò di Saint Vincent e sul riciclaggio di denaro proveniente dai sequestri di persona. Una pista che chiama in causa la mafia siciliana e i servizi segreti. La stessa che stava seguendo il pretore di Aosta Giovanni Selis, l’unico magistrato che abbia mai subito un attentato dinamitardo nel Nord Italia e morto suicida pochi anni dopo  di Elena Ciccarello

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