Se vogliamo comprendere perché, come titolato nel precedente post, Giugliano è emblema di un’emergenza nazionale, vanno almeno menzionati alcuni degli altri casi di conflitto ambientale di cui è disseminato il territorio nazionale. Lunghissimo l’elenco dei comuni campani finito nel rapporto del ministero della salute sui luoghi e siti più inquinati d’Italia; citarne solo alcuni può essere utile ad avere un’idea del disastro di questa terra: Acerra, Aversa, Caivano, Casal di Principe, Casapesenna, Caserta, Maddaloni, Marcianise, Mariglianella, Marigliano, Melito di Napoli, Mondragone, Monte di Procida, Orta di Atella, Pozzuoli, San Tammaro, Santa Maria Capua Vetere, Santa Maria la Fossa, Boscoreale, Boscotrecase, Castellammare di Stabia, Ercolano, Napoli, Pompei, Portici, San Giorgio a Cremano, Terzigno, Torre Annunziata, Torre del Greco e Trecase. Come già scritto, per chi abita qui, si registra un aumento della mortalità per patologie varie ma che – si dice nel rapporto – non può essere slegato dall’esposizione a rifiuti e discariche. Bene, non diversa è la situazione in altre parti d’Italia, dove, anche quando non asserita con certezza la connessione tra la specifica situazione di inquinamento e l’incremento di mortalità o patologie varie, quest’ultimo è comunque rilevato.

Caso poco conosciuto ma di recente venuto alle cronache e anch’esso riportato nel rapporto del ministero, è quello dell’area industriale del comune di Tito, Potenza: nel 2001, fu decretata sito di interesse nazionale per le bonifiche dal Ministero dell’Ambiente. Su un’area di 25 ettari, si riscontrava avvelenamento da amianto, falde contaminate, vasche contenenti acque reflue. L’area è interessata da una discarica abusiva in cui sono finiti residui di lavorazioni industriali nel ventennio 1981-2001, dopo la chiusura degli impianti della Liquichimica; dal rinvenimento di «rifiuti di diversa origine (speciali, pericolosi, assimilabili agli urbani) in quantità pari a circa 210.000 metri cubi» e da una vasca per lo stoccaggio di «rifiuto tossico nocivo» non autorizzata. Secondo il quadro economico tratto dalla delibera Cipe n. 87/2012 sono stati stanziati: 6.000.000 di euro per la messa in sicurezza permanente del bacino di fosfogessi radioattivi, residui delle attività di produzione di fertilizzanti e detergenti; 11.000.000 per la prosecuzione degli interventi di messa in sicurezza e bonifica delle acque di falda; 3.000.000 per la bonifica dell’area fluviale inclusa nel Sin; 3.395.000 euro per la messa in sicurezza e bonifica delle scorie siderurgiche. Se non impegnati dalla Regione entro il 31 dicembre 2013 e spesi entro il 2015 i fondi rischiano di essere revocati.

Nel 2002, la Regione Basilicata aveva già ricevuto dal Ministero 7,8 miliardi di vecchie lire per procedere alle caratterizzazioni, alla messa in sicurezza e alla bonifica. Nel 2005 quei soldi vengono dati in gestione al Consorzio industriale Asi che però, nel 2008, viene ripreso dal Ministero per lo smaltimento non corretto delle acque contaminate, per il resto, poco altro è stato fatto, o meglio, ciò che è stato fatto non riguarda la bonifica; tramite cessione di terreni ai privati, sono invece nate nuove attività, come il centro commerciale a cento metri dalla vasca dei fosfogessi. Insomma l’area dell’Ex Liquichimica di Tito Scalo, dopo la chiusura dell’impianto, è stata ridotta ad una vera e propria discarica illegale su cui si ipotizza un traffico di rifiuti provenienti da altre zone. Dopo le false rassicurazioni dell’Agrobios, agenzia pubblico/privata che, tra il 2006 e il 2012, ha sempre negato problematicità ambientali sia dell’area attorno al centro oli di Viggiano, sia per quella dell’ex Liquichimica di Tito, oggi si è invece costretti ad ammettere che le vasche dell’ex Liquichimica di Tito sprigionano radio 226 in misura 4 volte superiore alla norma e il rischio di percolato radioattivo nel Tora e nel Basento. Intanto nello studio del ministero della salute sui luoghi e siti inquinati, si legge che nel comune di Tito «Il Decreto di perimetrazione del Sin elenca la presenza delle seguenti tipologie di impianti: chimico e siderurgico. Nell’area sono presenti attività produttive di diversa dimensione e tipologia, sia in funzione sia dismesse, con impianti chimici, scorie siderurgiche, discariche di rifiuti pericolosi, discariche con amianto a cielo aperto, vasche di fosfogessi. Il sito Arpa Basilicata riferisce attività di monitoraggio ambientale condotte nel 2003 con rilevazione di metalli pesanti (cromo esavalente, piombo, mercurio), benzene e idrocarburi aromatici, composti organici alogenati e altri idrocarburi. Nella sola popolazione maschile è in eccesso la mortalità per patologie dell’apparato respiratorio. Si osserva un eccesso di mortalità per tumori del colon-retto nelle donne».

Insomma, in Italia come nel resto d’Europa la presenza dei siti contaminati è rilevante, basti pensare che 250.000 sono i siti da bonificare negli Stati membri della European Environment Agency e migliaia di questi sono localizzati in Italia, 57 quelli definiti di «interesse nazionale per le bonifiche» (Sin) e finiti nel «Programma nazionale di bonifica», sulla base dell’entità della contaminazione ambientale, del rischio sanitario e dell’allarme sociale (DM 471/1999). L’impatto sulla salute dei siti inquinati è oggetto di indagini epidemiologiche di tipo geografico nelle aree a rischio. Avviato nel 2007, con finanziamento nell’ambito del Programma Strategico Ambiente e Salute del Ministero della Salute, il Progetto Sentieri (Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento), con lo scopo di valutare l’evidenza epidemiologica dell’associazione causale tra specifiche cause di morte ed esposizioni ambientali, ha pubblicato i dati nel 2010: 400.000 i decessi indagati, relativi ad una popolazione complessiva di circa 5.500.000 abitanti; la mortalità osservata per tutte le cause e per tutti i tumori supera quella media della Regione di appartenenza, rispettivamente in 24 e in 28 siti.

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