Avrebbe dovuto essere un’indagine di poco conto incapace, con ogni probabilità, di produrre risultati significativi. Al contrario si è trasformata in una maxi inchiesta in grado di mettere nei guai almeno nove grandi banche europee scoperte dagli inquirenti mentre dagli uffici americani facevano allegramente affari con alcuni dei peggiori regimi politici del mondo. In barba alle sanzioni di Washington, ovviamente. E’ l’incredibile storia resa nota in esclusiva dal Wall Street Journal. Una vicenda che ha visto protagonista un vero e proprio eroe per caso, l’israelo-statunitense Eitan Arusy, sconosciuto analista ieri, principale inquirente del Dipartimento di Giustizia di Washington oggi.

Tutto è partito dall’analisi dei sospetti flussi di denaro che hanno coinvolto la Alavi Foundation, un’organizzazione culturale no profit iraniana presente negli Usa con una sede nella centralissima Fifth Avenue a New York. Le indagini, avviate da Arusy cinque anni or sono, hanno messo in luce una spettacolare rete di scambi finanziari che avrebbe consentito ai clienti dei grandi istituti di credito coinvolti di far circolare impunemente almeno 2 miliardi di dollari tra banche, imprese e governi nazionali finiti da tempo sulla lista nera di Washington. La rete, estesasi tra Iran, Cuba e Sudan avrebbe coinvolto 9 grandi società. Tre di queste – Credit Suisse, Lloyds e Barclays – hanno già avviato un patteggiamento pagando multe da centinaia di milioni di dollari.

Per gli enti statali o le società sottoposte a sanzioni per i loro legami con governi autoritari e/o sostenitori del terrorismo, l’elusione delle sanzioni finanziarie e la capacità di far circolare i capitali divengono spesso esigenze improrogabili. Ed è qui che il business bancario entra in gioco. L’inchiesta porterebbe infatti alla luce un collaudato sistema di aggiramento degli ostacoli offerto dalle società finanziarie che, nella gestione dei propri servizi guadagnano ovviamente sulle commissioni. Secondo il tribunale, Credit Suisse si sarebbe impegnata nel cancellare dai registri nomi, indirizzi, codici e numeri di telefono in grado di portare all’identificazione dei clienti iraniani.

Tra le informazioni scientemente nascoste, spiccano i legami tra la Alavi Foundation e il suo braccio finanziario, l’istituto Bank Melli. Entrambi i soggetti, riporta ancora il Wall Street Journal sono risultati legati a doppio filo con il regime di Teheran. Credit Suisse, per altro, non sarebbe nuova a questo genere di operazioni. Già nel 2007, hanno rivelato gli inquirenti, una sede distaccata della banca si sarebbe operata per rendere invisibili i flussi finanziari che coinvolgevano i suoi clienti speciali: alcune società di brokerage con sede in Libia e Sudan.

In attesa dei nuovi sviluppi, l’inchiesta newyorchese ha comunque contribuito a riaccendere il dibattito sull’utilità delle sanzioni nel contrasto alla dittatura e al terrorismo. Oltre a danneggiare i sistemi economici nazionali scaricando ingiustamente sulla popolazione le colpe dei loro regimi, gli schemi di boicottaggio finanziario rischiano infatti di rivelarsi sempre più inutili man mano che nuovi sistemi di elusione vengono studiati e testati sul campo. Due anni fa, lo stesso Wall Street Journal aveva denunciato l’abilità di Teheran di aggirare gli ostacoli imposti da Washington ricorrendo ad intermediari finanziari “puliti” e immuni dal controllo delle authorities. Nel mirino dell’inchiesta erano finite in particolare alcune società di intermediazione attive Dubai, la più forte piazza finanziaria del Medio Oriente.

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