Ogni primo giorno di scuola ricorda la “nostra” prima volta. Ve la ricordate? Forse è solo un’immagine sfocata, una di quelle fotografie scattate dalla nostra memoria ma rimaste opache. Quella mattina torna in mente ogni anno osservando i bambini che arrivano a scuola per la loro prima volta: schiamazzano, trainano quella cartella che non hanno mai avuto in maniera goffa, qualcuno ha gli occhi gonfi di lacrime, qualcun altro guarda la mamma che si allontana come se la dovesse perdere per sempre. Per un attimo rivedo il mio banco in formica azzurro, credo di ricordare sulla destra dell’aula; il mio grembiule blu; quello sguardo curioso e birichino che avevo come avrebbe scritto l’insegnante qualche mese dopo sulla pagella. E poi i miei compagni: Rinaldo, Domenico, Silvia, Mascia, Alberto. Di alcuni di loro so che fine hanno fatto, altri sono solo un volto bambino rimasto impresso nei pensieri che scorrono.

E poi la maestra: Teresa. Ai miei occhi appariva già “vecchia” ma avrà avuto circa 50 anni. Quegli occhi azzurri, quegli occhiali con la catenella rossa, quel sorriso rassicurante non l’ho mai scordato. Persino le sue forme un po’ arrotondate mi rassicuravano. Lo scorso anno sono stato a trovarla in un ospizio per anziani. Quando entri in questi luoghi, gli anziani ti appaiono tutti uguali.
A fatica sono riuscito a distinguere tra tutte quelle teste canute quella della mia maestra. E’ stata lei a riconoscermi e a chiamarmi: “Alex, Alex”.

Il mio nome, pronunciato con un filo di voce ma in maniera netta, chiara, è suonato alle mie orecchie come quella prima volta. In quel momento la maestra e il suo alunno rinnovavano quella promessa, l’ “affidarsi”, quell’impegno a stringersi la mano. La maestra aveva riconosciuto dopo anni quel bambino e quel bambino cercava di nuovo quello sguardo. E’ lì che ho compreso cosa accade la prima volta. Il primo giorno di scuola incontri una di quelle poche persone che ti cambierà la vita, che ti indicherà delle strade, che lascerà una traccia, che volente o nolente plasmerà con le sue mani quell’argilla informe che ti porti addosso.

E’ la maestra, il maestro che ti può far appassionare alla lettura, che ti può far provare la gioia della scoperta, che può educarti a essere curioso. Tutti imparano a leggere e scrivere. Tutti i maestri sanno insegnarti a leggere e a scrivere. La differenza la fa la vita di quel maestro/a. Teresa per cinque anni mi aveva parlato del Mozambico, terra di missione di suo nipote.
Io, cresciuto in una famiglia dove non solo non c’erano i libri, ma nemmeno la libreria, non sapevo nulla di quel posto in fondo all’Africa. Eppure, a 18 anni il mio primo viaggio l’ho fatto in Mozambico.

Ecco perché in classe non può entrare chiunque, ma uomini e donne che sappiano avere una relazione con i bambini; maestri e maestre che abbiano delle vite “ricche” e non impoverite dalla burocrazia, dal desiderio di voti e verifiche. Insegnanti che sappiano sorridere: “Nelle nostre scuole. Generalmente parlando, si ride troppo poco – scriveva Gianni Rodari -. L’idea che l’educazione della mente debba essere una cosa tetra è tra le più difficili da combattere”. I maestri non sono tutti uguali. E’ infingardo immaginare un maestro adatto a un bambino di sei così come a quello di dieci. E’ ipocrita dire che tutti sanno ascoltare, ridere, osservare un bambino o un ragazzo di dieci anni. Quel maestro o quella maestra che avete incontrato stamattina non lo dimenticherete più solo se sarà stato davvero “magister”, il più grande.

Quella prima volta la descrive molto bene Alberto Asor Rosa nel suo primo capitolo di Amori sospesi: “La mano di Emanuele passò da quella della madre a quella della signora alta e composta, e ambedue si allontanarono verso la schiera già schiamazzante dei suoi presunti compagni. Sempre camminando al fianco di questa signora, che ogni tanto, sia pure dolcemente lo strattonava per la mano, Emanuele volse la testa e si guardò indietro. Perché sua madre non veniva anche lei? Perché se ne andava? Perché lo salutava da lontano con quello strano sguardo negli occhi – sorpresa, stupore, dispiacere, malessere, imbarazzo, rammarico, insomma chissà – che prima non c’era mai stato? Emanuele capì che il mondo in quel momento era cambiato, e che non sarebbe più stato come prima”.

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