Il labirinto kafkiano della repressione calcistica aggiunge nuove stanze e corridoi al suo inavvicinabile castello. Un ragazzo napoletano di 30 anni, lo scorso 3 febbraio è stato arrestato da uomini della Digos e della Squadra Mobile della Questura di Latina (dove il ragazzo è domiciliato) e poi condannato a 32 anni di Daspo e a 6 anni di carcere, per non avere rispettato gli obblighi di firma previsti da un vecchio Daspo.

La vicenda ha inizio nel 2007, quando il ragazzo, ultrà della Juve Stabia, è sottoposto al primo procedimento di divieto di assistere alle manifestazioni sportive da parte della Questura di Napoli. Da qui, cominciano le reiterate violazioni degli obblighi di firma imposti dalla misura del Daspo e le altrettante violazioni della stessa fattispecie di reato. In pratica il ragazzo, la cui storia personale lo porta anche vivere senza fissa dimora, la domenica non va in Questura a firmare e probabilmente continua ad andare allo stadio. Fino che il cumulo di pena lo porta alla condanna di 6 anni e 8 mesi di reclusione, a 15mila euro di multa e a un Daspo di 32 anni.

Questo provvedimento non è neppure una novità. Pochi mesi fa, infatti, è stato condannato a 4 anni di reclusione il 47enne anconetano Alessio Abram, attivista politico, presidente della Polisportiva Assata Shakur che si occupa di diffondere lo sport popolare nel territorio marchigiano e tra gli organizzatori dei Mondiali Antirazzisti: tutte iniziative improntate ai valori di uguaglianza, libertà e solidarietà che lo sport professionistico ha da tempo dimenticato, se mai li ha seguiti.

Nel 2006 Alessio Abram è oggetto di Daspo e di una condanna di 4 mesi ai domiciliari perché insieme a un gruppo di tifosi dell’Ancona blocca il pullman della squadra. Sono i tempi del fallimento del club in mano a Pieroni, del Lodo Petrucci e di altre magagne tipiche del calcio italiano, ma il problema si sa, sono i tifosi. Ad Alessio Abram, spiega il suo avvocato, è quindi contestata la reiterata violazione del Daspo negli anni seguenti, anche semplicemente perché da allenatore di una squadra di dilettanti composta per lo più da migranti decide di sedersi comunque in panchina. Anche qui le pene diventano cumulative, e al Daspo si aggiunge la condanna a 4 anni di carcere.

Questi sono solo due dei molteplici esempi degli effetti della direttiva Alfano (decreto legge 119/2014) sulla sicurezza negli stadi. Dove il Daspo, il divieto di assistere alle manifestazioni sportive introdotto dalla legge 401 approvata nel 1989 e successivamente modificato più volte, e già di per sé soggetto a diverse critiche ed eccezioni di compatibilità costituzionale, in buona sostanza in quanto provvedimento emesso dall’autorità di pubblica sicurezza, diventa una misura capestro nei cui meandri è faticosissimo districarsi. Salvo poi che ogni anno i vari Tar rigettano la maggior parte dei provvedimenti (in Italia superano i 5mila) presi dalle questure. Da ultimo la decisione in autunno del Tar del Lazio prima, e di quello della Toscana poi, di accogliere i ricorsi dei tifosi del Bari in un caso e della Fiorentina in un altro contro i primi due casi di emissione del cosiddetto “Daspo di gruppo” (uno dei fiori all’occhiello della riforma di Alfano) che è considerato non valido in quanto manca l’identificazione del presunto colpevole.

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