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A volte le parole che non esistono valgono più di un trattato di sociologia. Volete sapere perché nell’ultimo rapporto di Transparency International l’Italia viene ancora indicata come il secondo Paese più corrotto di Europa dietro Grecia e Romania? O perché, dopo aver inasprito le pene sulle mazzette e aver creato l’Anac di Raffaele Cantone, l’unico risultato tangibile sia stato sorpassare la maglia nera Bulgaria restando ad anni luce di distanza da Danimarca, Finlandia, Regno Unito, Canada e Stati Uniti?

Beh, invece prendere in mano le collezioni dei giornali o qualche manuale di storia politico-economica, basta riflettere sulla nostra lingua. Nel Belpaese nessuno, al partire dal popolo italiano, ha mai sentito la necessità di coniare un termine per definire il whistleblower o per spiegare cosa sia l’accountability. Così, mentre la Camera approva in prima lettura una legge per tutelare il dipendente che segnala casi di malaffare all’interno dell’azienda per cui lavora, a corrugare la fronte contro il whistleblower non è solo Forza Italia, ma a malincuore pure l’Accademia della Crusca. E se i seguaci di Silvio Berlusconi votano no per ragioni ormai quasi genetiche, gli onesti accademici fiorentini si trovano invece costretti a sottolineare che “al momento, nel lessico italiano non esiste una parola semanticamente uguale al termine angloamericano”. Si usa l’inglese, spiega la Crusca, perché da noi l’idea di dire bravo a uno che denuncia il suo superiore ladro o un suo parigrado malfattore non è mai stata popolare. Avete presente quella filastrocca : “Chi fa la spia non è figlio di Maria…”.

Per questo, ricorda in un bel articolo Mario Portanova, quando si è trattato di discutere di whistleblowing, in Parlamento è risuonato spesso il termine “delatore”. Ovvero la parola che secondo la Treccani indica “chi per lucro, per vendetta personale, per servilismo… denuncia qualcuno presso l’autorità politica”. Usare un termine del genere significa però ignorare che esiste un interesse pubblico superiore a quello dell’organizzazione in cui sui milita o da cui si riceve uno stipendio.

Non per niente potete anche provare a sfogliare per ore il vocabolario italiano senza trovare qualcosa di esattamente paragonabile all’accountability. La traduzione dice che si tratta della “responsabilità, da parte degli amministratori che impiegano risorse finanziarie pubbliche, di rendicontarne l’uso sia sul piano della regolarità dei conti, sia su quello della gestione”. Ma negli Usa questa parola viene utilizzata anche nella sfera personale. La mia amica Kris Grove scrive: “una persona in grado di prendere visione delle proprie azioni, e che comprende gli effetti che queste hanno nella sua vita e in quella altrui, è un individuo che vive in accountability”. Accountable è un essere umano che sa quanto sia importante la coerenza e il senso civico. Per questo nel mondo anglosassone termine accountability è sempre nella classifica delle prime dieci parole utilizzate durante i colloqui in vista di un’assunzione.

Intendiamoci, qui non si sostiene che in America si viva meglio o che si sia più felici. Ma che si rubi meno, sì. E che a nessuno, o quasi, venga in mente di posteggiare in seconda fila, pure. Del resto da quelle parti è possibile lasciare aperte per strada le cassettine contenenti i quotidiani chiedendo ai lettori di prenderne una copia in cambio di una moneta. Provate a farlo da noi: spariranno giornali, monete e, dopo un po’, pure le cassettine.

Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2016

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