Sfidando un caldo arroventato di polemiche l’assemblea nazionale del PD trasloca all’Expo di Milano. Il segretario pensava al one man show dal palcoscenico che ha indicato come fiore all’occhiello della riscossa e delle capacità italiane. Il posto perfetto per “il Renzi che fa il Renzi”. A scompaginare i piani di Matteo Renzi ci sono però le tante inquietudini della vigilia: dalla Grecia a Roma alla Sicilia, passando per le questioni interne che agitano la minoranza come le aperture a Verdini e la disciplina di partito sulle riforme. Si annuncia dunque un’assemblea torrida, e non per ragioni climatiche. Qualcuno tenta la battuta sul premier che si presenterà col giubbotto antiproiettile, come nella recente visita al presidente keniota.

Ordine di scuderia: ricucire gli strappi e andare avanti, sull’onda di quell’expottimismo che resiste a prescindere dai numeri e dalle leggi della fisica. Arrivano puntuali i maggiorenti dem, prendono spazio nell’auditorium da mille posti. Glissano domande e polemiche sulla trasferta che è diventata un caso: com’è possibile che il partito di governo, azionista di maggioranza della società che organizza l’Esposizione universale, utilizzi come sua “vetrina” uno spazio pubblico destinato a ospitare manifestazioni internazionali? Le risposte (poche) sono la carta carbone di quella dettata dal ministro Boschi: “Niente di inusuale o inappropriato. Come altri soggetti privati abbiamo chiesto ad Expo di tenere qui la nostra assemblea, ovviamente pagando”.

E tuttavia quella milanese non è una passerella. A nessuno sfugge il valore politico della location voluta da Renzi. Arrivando, il primo a sentirsi a disagio è Don Mazzi: “Non si capisce, il papa va in mezzo alla merda, vorrei un Pd che va a Quarto Oggiaro o a Baggio. Mi aspetto scelte chiare sugli innominabili. Se poi ci sarà da mandare giù dei rospi, chiedetelo a me, lo faccio tutti i giorni con quello lassù”. Al contrario il premier è un expo-sostenitore della prima ora e qui è di casa. Stavolta però ha trascinato alle porte del capoluogo lombardo tutto il partito. E perché mai? Perché Milano, dopo Roma, ha una gigantesca toppa da rattoppare: la capitale economica d’Italia gli riserva, tutti insieme, un sindaco che non si ricandida, il suo braccio destro che dà le dimissioni, primarie che potrebbero essere più affollate dei padiglioni di Expo (Ambrosoli, Fiano, Maiorino, Boeri più un numero imprecisato di outsider) e un pressing su Pisapia che non ha prodotto risultati. Il rebus, per di più, va sciolto ben prima dei 10 mesi che mancano al voto. Si capisce, allora, qual è il grado di preoccupazione che serpeggia tra i vertici del Pd nazionale quando arrivano a Milano.

La situazione è delicata, potenzialmente incendiaria. Arrivano i big della direzione nazionale, c’è la consegna del silenzio. Meno che mai rispondono alle provocazioni, ad esempio quando gli si fa notare che proprio il super-commissario all’Expo, Giuseppe Sala, è un candidato potenziale del centrosinistra per le comunali. Uno tra i tanti, certo. Scusi, il partito è qui per l’investitura ufficiale? “Sono speculazioni da quattro soldi, cazzate”, bisbigliano i più. “E’ una valutazione prematura”, tagliano corto altri. Molti delegati invece non parlano affatto, e tuttavia stanno con le orecchie ben aperte per cogliere ogni fibrillazione. La vetrina scelta per l’occasione, del resto, è un po’ lo specchio della condizione che agita i convenuti, arrivati qui a riflettere del presente e del futuro del Pd: nell’aria c’è il timore che le narrazioni favolose si frantumino sui numeri, che l’impalcatura dell’ottimismo venga giù pezzo dopo pezzo.

Per Expo i numeri sono quelli dei visitatori, gonfiati ad arte per sostenere oltre ogni evidenza il refrain del “grande successo”. Il trucco è durato due mesi, finché Il Fatto Quotidiano ha rivelato i dati reali degli ingressi (-1,8 milioni di visitatori rispetto alle previsioni che si volevano “rispettate”). Forte, a questo punto, è il rischio che il quadro economico-finanziario dell’intera operazione, fortemente ancorato alla vendita dei biglietti, non si regga più. E che l’investimento pubblico tanto celebrato dal premier finisca invece per consegnare ai posteri un’eredità di conti in rosso da ripianare, con altri soldi pubblici. Per non dire del mancato volano per l’economia e di Milano che, dopo tante parole, andrebbe al voto col sapore amaro delle promesse tradite. Difficile, in caso di sconfitta, nascondere le responsabilità.

Lo stesso si può dire però del Partito Democratico, e quindi del governo. Anche per loro il differenziale tra i numeri reali e quelli raccontati rischia di destabilizzare una grande costruzione. Preoccupano i dati dell’economia, fanno paura quelli dei sondaggi. Il debito pubblico tocca nuovi record, l’azione riformatrice del governo fatica a produrre effetti apprezzabili sul Paese e il Parlamento quasi non tocca palla. Risultato: la disinvoltura e le ostentazioni di fiducia del premier-segretario (e dei dirigenti di marca renziana) non bastano più e sono vissute dalle anime disallineate del partito con crescente sofferenza. Magari quadri e dirigenti dem, accorsi numerosi, metabolizzano, la “base” fa più fatica. L’elettorato neanche più quella: si gira dall’altra parte e se ne va. Segnali chiari arrivano da grafici, tabelle e percentuali. Gli ultimi sondaggi fotografano un tonfo del Partito Democratico tra il 32% (rilevazione Demos) e il 31,5% (Ipsos), il punto più basso a livello demoscopico del PD di Matteo Renzi, sceso non solo rispetto al 40% delle europee, ma anche ai dati di inizio mandato a Palazzo Chigi, quando era stimato intorno al 32,3%. Inutile sottoporre i dati ai delegati e domandare se ritengono di avere ancora i numeri per governare fino al 2018.

Ma poco importa perché è venuto il tempo di ricucire, qui e ora. E per compiere il rito collettivo, l’esorcismo che scaccia la paura e i “gufi”, non c’è posto migliore della grande fiera degli ottimismi. Non basta però la location a illuminare gli animi. La valigia dei delegati è carica di pensieri cupi. Sta per parlare Renzi. Qualcuno è fuori a fumare e dopo due chiacchiere confida il peso che si porta dentro. Ad esempio i detriti della vicenda greca: per settimane il partito è stato percosso dai venti ellenici, con le anime più radicali che stavano con Syriza e Renzi che teneva i piedi in due scarpe per non sfilacciare i rapporti con la Merkel e le istituzioni monetarie e internazionali. Sono in tanti, ora, a pensare che nello storico derby con la Troika sul debito ellenico abbia condannato l’Italia all’irrilevanza.

Anche il fronte interno, però, presenta nuove crepe. Da settimane la cronaca politica nazionale riversa macigni che si vorrebbero quantomeno “sminestrare”, come diceva Renzi al generale Adinolfi nelle note intercettazioni sul destino del governo Letta. Guai sollevare la questione. “Di queste cose non parlo”, è la reazione più comune, appena le domande cadono sugli intrighi renziani per conquistare il potere rivelati di recente dal Fatto. E allora la storia di Crocetta che si autosospende per le frasi choc su Rita Borsellino, facendo traballare la Sicilia? “Non capisco, Renzi difende i sottosegretari indagati e non Crocetta!”, sbotta Calogero Frenda, delegato da Varese ma di Agrigento. E la Puglia, dove c’è quel satanasso di Michele Emiliano che rompe, frantuma e divide. L’ultima è che preferirebbe allearsi coi Cinque Stelle piuttosto che con l’Ncd con cui il Pd a Roma, invece, va a nozze e governa.

Da tutto questo (e altro ancora) vorrebbe sapere o rifuggire il Pd in trasferta a Milano, così silenzioso, così ordinato e composto “nonostante”. Che si prende per un giorno la piazza che doveva “Nutrire il pianeta” ma la usa per sé, mettendo all’ordine del giorno il consueto intervento del segretario, le modifiche allo statuto a favor di quote rosa e minoranze interne, la ricostituzione del plenum dei garanti. Tecnicalità sulle quali il Pd rischia però di perdere la parte residua dell’ultimo giro di finanziamenti pubblici. Così dentro l’auditorium di Expo è iniziata la giornata campale del Pd, in compagnia dei suoi fantasmi e delle sue inquietudini. I numeri, quelli veri, sono là fuori.

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