Lo slogan recita: “Per non dimenticare”. Ma arriva un momento in cui, senza perdere la memoria, si vorrebbe finalmente guardare al passato dei morti, del sangue, delle vittime incolpevoli e degli accusati innocenti, con il distacco sereno di chi ha capito il come e il perché. “La giustizia vuole più dolore che collera”, scriveva Hannah Arendt. Ma dopo 45 anni, la fine della Guerra Fredda, il tramonto della Prima Repubblica, la collera è svaporata, il dolore resta privilegio di chi ha perso un padre, o un figlio, o una moglie, e la giustizia è, per tutti, una stanza irrimediabilmente vuota.

Non sappiamo il come, né il perché. E in più il presente continua a ricordarci che quella storia non è passata, nel Paese dell’eterno ritorno. Mafia Capitale è la riproposizione oggi, a Roma, di una parte del personale “politico” (o politico-militare) che è stato protagonista della stagione italiana delle bombe nere e dei depistaggi di Stato. Ci fa capire che non c’è stata rottamazione neppure per i criminali, figurarsi per i volonterosi funzionari della guerra invisibile, o per i politici: del rinnovamento si è occupata soltanto l’anagrafe, facendo valere il peso biologico del tempo che passa.

E nell’indagine palermitana sulla trattativa Stato-mafia è ora spuntato il ruolo avuto nella stagione delle stragi da un giovane ufficiale dei carabinieri di nome Mario Mori: il giudice istruttore Giovanni Tamburino, che indagava sui progetti eversivo-istituzionali della Rosa dei venti, nel 1974 chiese al Sid, il servizio segreto militare, informazioni urgenti su Mori, che in quegli anni per il servizio teneva i contatti con i terroristi neri. La risposta non arrivò: un mese dopo, l’inchiesta di Padova sulla Rosa dei venti, come quella di Milano su piazza Fontana e quella di Torino sul golpe di Edgardo Sogno, fu trasferita a Roma, dove s’insabbiò per sempre. Mori, sfiorato nel 1974 dall’indagine sugli intrecci tra eversione nera ed eversione di Stato, oggi è tra gli imputati del processo ai protagonisti dell’incrocio tra Stato e mafia. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, nell’Italia delle eterne trattative e delle eversioni incrociate.   

Dal 12 dicembre 1969, quando scoppiò la bomba in piazza Fontana, sono passati 45 anni. Sette indagini. Dodici processi. Nessun colpevole. La giustizia non è riuscita a stabilire le responsabilità individuali, a condannare chi ha organizzato e realizzato la strage. Eppure è sbagliato dire che non sappiamo nulla, che non conosciamo la verità. La sappiamo, e non soltanto nel senso profetico di Pasolini (“Io so”).

piazza-fontana

Nove lustri di inchieste, testimonianze, indagini giudiziarie e ricerche storiche hanno sedimentato almeno due certezze. La prima è che le stragi della cosiddetta strategia della tensione sono state materialmente eseguite da gruppi neofascisti. Del resto, almeno un condannato per le bombe del 12 dicembre c’è: è Carlo Digilio, detto “zio Otto”, esperto in esplosivi, che si è autoaccusato di aver contribuito alla preparazione dell’ordigno, confezionato per il gruppo neofascista Ordine nuovo. La seconda è che gli apparati dello Stato hanno depistato le indagini e sottratto prove e testimoni, in nome della “guerra non ortodossa” combattuta con eserciti segreti e segretissimi accordi internazionali. Lo dicono le stesse sentenze – piazza Fontana, piazza della Loggia, questura di Milano… – che hanno mandato assolti i loro imputati (tranne Digilio).

Noi sappiamo, dunque. Non abbiamo accertato le responsabilità penali, ma conosciamo i gruppi allevati per le operazioni “riservate”, i meccanismi, le strategie, le intossicazioni informative, i doppi giochi. Sappiamo il ruolo degli apparati dello Stato che hanno giocato alla guerra fredda, usando cinicamente massoni, mafiosi, criminali; che hanno impiegato Ordine nuovo, Avanguardia nazionale e i loro derivati; che hanno fatto della P2 e della banda della Magliana agenzie per i lavori sporchi e per gli affari loro. È nato così il “mondo di mezzo” arrivato fino a oggi a occupare Roma e non soltanto Roma. Abbiamo per un attimo sperato che la promessa di Matteo Renzi di declassificare i documenti sulle stragi potesse far fare qualche passo avanti verso la verità. Illusione. Chi sceglie che cosa declassificare è lo stesso apparato che ha classificato, depistato, nascosto. Il “mondo di mezzo” continua.

Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2014

MANI PULITE 25 ANNI DOPO

di Gianni Barbacetto ,Marco Travaglio ,Peter Gomez 12€ Acquista
Articolo Precedente

Corruzione, New York Times: “Non c’è angolo d’Italia immune dalla criminalità”

next
Articolo Successivo

Mafia Capitale, Riesame conferma carcere e aggravante per Carminati

next