Francesco Bidognetti, boss di vertice dei Casalesi, è stato condannato dal gup Claudia Picciotti a 20 di carcere per inquinamento delle acque e disastro ambientale aggravato. Una sentenza, all’esito del giudizio abbreviato, che cristallizza due verità: la prima è che i boss hanno contribuito, con imprenditoria e pezzi della politica, a devastare il territorio dove vivono; la seconda è che per la prima volta un tribunale certifica e attribuisce il reato di inquinamento della falda a marchio casalese e il disastro ambientale ad un capomafia ergastolano. I fatti riguardano la gestione della discarica Resit, a Giugliano in provincia di Napoli, in piena terra dei fuochi, per anni controllata da imprenditoria affaristica, sotto l’egida del clan dove, con autorizzazioni rilasciate grazie alla connivenza di funzionari, è stato possibile smaltire rifiuti urbani e ingenti quantità di rifiuti speciali pericolosi e non.

Oltre a Bidognetti, nel processo con giudizio abbreviato, è stato condannato a 6 anni Domenico Pinto, ex parlamentare radicale, per disastro ambientale e falso. Per Pinto è caduta l’aggravante di aver agevolato il clan ed è stato assolto dal reato di avvelenamento delle acque. La difesa di Pinto, rappresentata dall’avvocato Gaetano Balice, ha già annunciato che farà appello. Nel 2003 il commissariato affidò la gestione della discarica al consorzio Napoli 3, presieduto proprio da Pinto con il compito di smaltire rifiuti urbani e stoccare le balle dei rifiuti, grazie ad un’ordinanza commissariale, nonostante il contratto stipulato con Impregilo lo vietasse. Secondo l’accusa la designazione di Pinto fu favorita dall’ex sottosegretario Pdl Nicola Cosentino, non coinvolto in questo processo, che avrebbe fatto pressioni sul consorzio per ottenere la nomina di Pinto.

Il pm Alessandro Milita aveva chiesto 30 anni per Bidognetti e 12 per Pinto. Prescritti, invece, i reati di cui era accusato Giuseppe Valente, ex presidente del consorzio Impregeco, anche lui aveva scelto il rito abbreviato. Nel dicembre scorso, il gip Anita Polito ha applicato, su richiesta del pubblico ministero Alessandro Milita, la custodia cautelare in carcere a Bidognetti proprio per i fatti di cui rispondeva nel procedimento conclusosi con la condanna. Nell’ordinanza veniva ricostruito il vertice dell’organizzazione. “Il capo clan Francesco Bidognetti, il suo referente specializzato Gaetano Cerci, l’ideatore ed esecutore mafioso Cipriano Chianese nonché il Pubblico Ufficiale resosi principale artefice della new age avvelenatrice, il Sub-Commissario Giulio Facchi”. Per Facchi, Chianese e Cerci, e altri 29, il processo è in corso dinanzi alla Corte di Assise di Napoli e coinvolge anche funzionari preposti al controllo e all’iter autorizzativo, considerati a disposizione della consorteria affaristica e criminale.

I periodi di riferimento nella gestione criminale dell’area Resit sono due, il primo con il dominio casalese dagli anni Ottanta a metà anni Novanta, il secondo, fino al 2004, per il tramite di Cipriano Chianese attraverso il rapporto con funzionari del commissariato. “Si parla dei principali protagonisti – scriveva il gip Polito – del potenziale avvelenamento di un’intera generazione campana, disastro dipanatosi in una spirale, apparentemente inarrestabile, perseguita per un ventennio”. I reati per i quali è arrivata la condanna per il casalese sono di disastro ambientale e inquinamento delle acque. E per capire bastano i numeri della devastazione contenuti nella consulenza tecnica elaborata per la Procura. In un’area la Resit di circa 21 ettari, in un periodo di 20 anni, sono state smaltite almeno 800mila tonnellate di rifiuti di ogni genere, un’immensa quantità di percolato, il liquido di risulta dalla fermentazione dei rifiuti, ha penetrato le viscere della terra, un tempo felix, provocando oltre al disastro ambientale anche “l’avvelenamento della falda acquifera sottostante ai siti di discarica con rischio per l’agricoltura, salute animale e, secondo la normativa vigente, la salute umana ( nei casi di assunzione diretta)”. 

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