Da giorni gli addetti ai lavori litigano sull’interpretazione della nuova regolamentazione delle autorizzazioni edilizie in aree sottoposte a tutela. Per essere un articolo di un disegno di legge «sulla semplificazione», e scritto da un governo tecnico, non c’è male.

Per le associazioni ambientaliste, la norma apre un varco alla cementificazione anche delle porzioni protette del nostro martoriato territorio. Per i ministri dell’Ambiente e dei Beni Culturali, non è vero: «non c’è nessuna diminuzione del livello di tutela del paesaggio». Per Salvatore Settis, infine, «il disegno di legge sulle semplificazioni appena approvato dal Consiglio dei ministri si scontra con un piccolo intoppo: la Costituzione» (Repubblica, 21 ottobre).

Il punto cruciale è la riforma del cosiddetto ‘silenzio inadempimento. Oggi, quando un cittadino chiede di costruire in una zona sottoposta a vincolo, la soprintendenza ha 90 giorni per rispondere. Se non lo fa è inadempiente, e il cittadino può rivolgersi al Tar, e ottenere comunque una risposta seppure con una via più lunga.

La riforma, invece, dimezza il termine, decorso il quale a rispondere non sarà più la soprintendenza, che decade dal potere di farlo, ma lo sportello unico degli enti locali. Se (come è facile predire) quei poteri fin troppo vicini agli interessi locali diranno di sì, il cittadino intanto costruisce. Poi, semmai, la Soprintendenza ricorre, facendo dichiarare illegale la costruzione: ma da qui a farla abbattere, purtroppo, ce ne corre. Tra falle normative e complessità dei contenziosi, è facile immaginare che ci ritroveremo in una palude di carte bollate su cui svetteranno torri di cemento.

Secondo il ministro Clini «un cittadino che fa una domanda a un’amministrazione pubblica ha il diritto di avere una risposta, positiva o negativa che sia». Verissimo. Ma quella risposta non arriva in tempo non perché le soprintendenze siano piene di incapaci, o assenteisti, ma perché sono state fraudolentemente dissanguate da decenni di mancato turn-over.

Se il governo volesse davvero aumentare la qualità della tutela e insieme garantire i diritti del cittadino, non sarebbe meglio prima mettere l’amministrazione in grado di rispondere, e solo dopo pretendere che lo faccia? Anche perché, altrimenti, Clini sceglie di promuovere il mio diritto ad avere una risposta, ma elimina il mio diritto a non vivere in un paese devastato dal cemento. Non so perché il ministro dell’Ambiente preferisca il primo diritto, ma so che – se messa in grado di comprendere la posta in gioco – la maggioranza degli italiani sceglierebbe il secondo.

A questo punto la domanda è: si tratta di una svista, o di una nuova stagione di ‘mani sulla città’ e sul paesaggio?

Una prima risposta è che se davvero Clini e Ornaghi vogliono rafforzare la tutela hanno tutti gli strumenti amministrativi e legislativi: il fatto che – su questo fronte – il loro governo sia uno dei più immobili, anzi ignavi, della storia repubblicana potrebbe anche far credere che non si siano accorti di nulla, e che ora stiano provando a salvare la faccia.

Ma una lettura contestuale dell’indirizzo del governo spinge verso la risposta più pessimista.

Come ha spiegato Giorgio Meletti sul “Fatto”, il vice di Passera, Mario Ciaccia, ha appena annunciato un colossale progetto per la cementificazione del Paese, a spese pubbliche e profitto privato: l’idea decrepita e affaristica che una pioggia di porti, autostrade, infrastrutture sia il vero ‘volano dell’economia’. Arrivando a dire che il Ponte di Messina, forse, si potrebbe anche fare davvero.

Un altro tassello preoccupante è rappresentato dal disegno di legge sul consumo di suolo agricolo, che in un primo momento aveva invece suscitato speranze. Secondo l’assessore regionale toscana Anna Marson: «il testo dichiara di voler tutelare i suoli agricoli e limitarne il consumo, ma nei suoi dispositivi concreti prevede che sia determinata a livello nazionale la quantità di nuove superfici edificabili, e che essa venga poi ripartita tra le Regioni». Da qui il concreto «rischio che la legge porti a peggiorare il consumo di suolo in atto», e addirittura a produrne di nuovo.

Insomma, ce n’è abbastanza per credere che la fumosa alchimia giuridica profusa sui silenzi delle soprintendenze, a tutto miri tranne che a rendere più efficiente e rigorosa la protezione del nostro povero territorio.

Mario Monti è il primo Presidente del Consiglio ad esser anche membro del consiglio di amministrazione del FAI (Fondo Ambiente Italiano). Forse è venuto il momento di scegliere: proteggere l’ambiente e contemporaneamente spalancare la porta al cemento sarebbe troppo anche per un politico italiano di professione. Figuriamoci per un tecnico.

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