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La montagna va oltre il mondo pittoresco che la retorica di città le ha assegnato: rovesciamo lo sguardo!

E se aprissimo gli occhi? Cosa vedremmo oltre a questa rappresentazione estetizzante, ricoperta da una patina di innocenza?
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In una continua successione di piani, l’occhio passa dalla vacca che rumina placida sul pascolo alla vicina baita di pietra debitamente munita di gerani alle finestre e camino fumante, più su si posa sulle praterie d’alta quota e, oltre il fronte glaciale, scivola nel regno del gelo verso le creste sommitali avvolte nel vento. Niente turba lo sguardo, non c’è la vecchia vasca da bagno usata come abbeveratoio, non c’è la roulotte del casaro magrebino, e neppure la ruggine dello skilift abbandonato per mancanza di neve. Lassù tutto è bene. Tutto apparecchiato per soddisfare il turista in fuga dalla città.

E se aprissimo gli occhi? Cosa vedremmo oltre a questa rappresentazione estetizzante, ricoperta da una patina di innocenza? Cosa c’è oltre a questa e alle altre cartoline della montagna ludica, con le piste di sci innevate, i rifugi alpini oggi stellati, i costumi tradizionali? Sembra che la montagna non possa liberarsi dallo stigma di semplice contenitore di memorie, di mondo pittoresco del tempo libero che la vecchia retorica cittadina le ha assegnato nel corso degli ultimi due secoli.

Dobbiamo rovesciare lo sguardo. E se si punterà su una nuova forma di comunitarismo basato sulla protezione dell’ambiente, sul senso della misura (che è fortemente connaturato alla vita in montagna), sulla responsabilità orizzontale nei confronti dei nostri vicini e verticale nei confronti di chi verrà, la montagna potrà rappresentare un laboratorio di buone pratiche all’avanguardia, anche da esportare in città.

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