Cinema

Indiana Jones e il quadrante del destino, onore a Harrison Ford (e James Mangold): è una resurrezione

di Davide Turrini

Quando sui primissimi titoli di coda di Indiana Jones e il quadrante del destino risuona franco il classico ritornello di John Williams ci si alza in piedi con la mano sul cuore come fosse l’inno nazionale. Giunti al quinto capitolo, e quarto sequel, del franchise sull’archeologo con cappello e frusta ideato da Spielberg e Lucas 42 anni fa, tutti promossi. Così chi è entrato per assistere alle tristi esequie di Indy&co. (qualche dubbio l’avevamo anche noi) è uscito con una robusta resurrezione del senso di avventura fanciullesca e scanzonata della saga. Certo se Harrison Ford oggi ottantenne lo ringiovanisci in computer grafica come ne avesse 40 con l’inanimata plasticità di Tom Hanks in Polar Express il rischio dei fischi dal loggione è immediato.

James Mangold e il team di scrittura (Jez e John Henry Butterworth, David Koepp), allora, pompano a mille il ritmo dell’azione nei primi venti minuti per togliersi di dosso l’effetto sdoppiamento che potrebbe piallare ogni ottimismo. Giusto un prologhetto per capire da dove parte l’affannosa ricerca dell’ennesimo trafugato oggetto antico dai poteri eccezionali, qui l’Antikhytera di Archimede. Tra i nazisti in fuga da un castello alpino francese nel 1944 Indy/Ford entra in scena imprigionato e con il viso incappucciato; poi quando glielo scoprono non c’è il tempo per osservarlo nei dettagli: Indiana Jones 5 deve accelerare per una fuga su un treno ai mille orari, scontro a fuoco e a mani nude sopra i tetti dei vagoni, tunnel bassi e pali a spiovere, tuffo in acqua finale. Il gioco è fatto. Tolto il dente del giudizio, Indy/Ford anziano si sveglia venticinque anni dopo di soprassalto nel suo appartamento di New York in mutande, esibendo la nudità di un fisico ancora aitante per la sua età. A quel punto è come se la marachella della CGI per il ’44 non fosse mai esistita.

Del resto Indiana Jones è un classico del cinema d’avventura basato su una sospensione dell’incredulità tra le più esagerate possibili. I cinque blocchi action (Francia, New York, Tangeri, abissi marini mediterranei, Siracusa) che compongono il film contengono proprio la quintessenza di quella giocosa e irriverente invincibilità che il corpo sballottato di Indy assume come peculiarità indiscutibile in tutta la saga. Mangold questo doveva fare e questo ha fatto, facendolo pure molto bene. Dopo la morte del figlio in Vietnam, e separato da Marion, il professor Jones va in pensione. E mentre in diretta mondiale avviene l’allunaggio, Helena (Phoebe Waller-Bridge), figlia del suo ex amico e compagno di scorribande, si ripresenta dopo decenni al college dove Indy insegna, ossessionata dal ritrovamento dei pezzi del quadrante di Archimede. La ragazza però è esca inconsapevole di un manipolo di sanguinari nazisti capitanati da Voller (Madds Mikkelsen), oggi perfino al soldo della Cia ma alla ricerca insistente pure lui del prezioso tesoro.

Il primo inseguimento con Indy a cavallo tra i binari della metropolitana di New York ci fa capire che il cuore della messa in scena è lì. Dobbiamo correre, scappare, scazzottare, arrivare con i buoni (anche se Helena è una ladruncola che ama più di tutti i denari) alla soluzione dell’enigma, e ad acciuffare tutti i pezzi dell’antikhytera, prima di Voller e dei suoi. Ogni tappa una scarica divertita e beffarda di adrenalina. Ogni tappa un battibecco brillante Indy-Helena con piccole efficaci e intriganti varianti: il ragazzo marocchino e i suoi tirapiedi armati fino ai denti a Tangeri, la presenza un po’ inutile di Antonio Banderas come amico subacqueo di Indy tre le isole del Mediterraneo, ma soprattutto la sorpresa fantascientifica del “salto nel tempo” nel lungo sottofinale a Siracusa. Mangold&co. disseminano con naturalezza anche eleganti riferimenti nostalgici alla saga: l’aggeggio che passa di mano tra trafficanti a Tangeri è il diamante che rotola ovunque nell’incipit del Tempio Maledetto; il bambinetto Teddy è il doppio di Shorty (là con la zeppa sotto al piedi per spingere i pedali dell’auto, qui a mettere in moto un aeroplanino); gli insettacci orribili che si appiccicano addosso a Indiana e Helena nella grotta di Dioniso piovono direttamente dal tempio di Shiva sempre dal secondo capitolo del franchise. Del resto la tensione nel film non è solo sviluppata nel costruirsi dell’azione, ma anche a livello tematico e di senso: la contrapposizione tra futuro da esplorare (la Luna) e l’ostinazione per il passato attraverso la funambolica pratica archeologica di Jones o quell’aspetto nostalgico che se all’inizio della saga, oltre 40 anni fa, si riferiva a quei personaggi della vecchia Hollywood che ispirarono Spielberg e Lucas, ora si riattiva verso l’idea di infinita giovinezza del protagonista e del suo inner circle (toh chi si rivede: John Rhys-Davies alias Sallah!) di caratteristi buffi dai rapporti fraterni e turbolenti (su questo campo si gioca il finale da antologia, peraltro). Indy da anziano rimane simpaticamente imbronciato, sciorinando una saggezza da terza età impagabile (“cosa cambierei in un viaggio del passato? Convincere mio figlio a non arruolarsi”) e un sense of humor imitato da tanti e mai eguagliato (“tu sei tedesco non riesci a essere spiritoso”). Onore infine a Ford che al di là di moltiplicazioni di pani e pesci invisibili in scena, cavalca e saltella a 80 anni, acciaccato e contento, come un ragazzino. Insomma, dopo una quarta da mani nei capelli, per Indiana Jones buona la quinta (e la sesta?).

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