I recentissimi eventi cataclismatici in Emilia Romagna hanno riportato in primo piano, se mai ce ne fosse bisogno, la scottante questione del cambiamento climatico di origine antropica. Qui mi interessa evidenziare – al netto delle responsabilità che verranno (o sono già state) approfondite in altre sedi – un paio di “meccanismi” comunicativi innescati dalla recente alluvione.

Il primo riguarda l’utilizzo spregiudicato e indiscriminato della fallacia ad hominem, dell’argomentum ad auctoritatem e di quello ad populum. Il secondo riguarda ciò che poteva e doveva esser fatto, in via preventiva, proprio in ragione dell’arcinota questione del surriscaldamento planetario.

Quanto al primo punto, abbiamo notato nel corso dei recenti dibattiti televisivi e scorrendo i più diversi (anche autorevolissimi) editoriali, l’insistito impiego del termine “negazionista climatico”. E ciò nei riguardi di chiunque – anche con “posture” assolutamente razionali ed equilibrate, con toni pacati e con civile argomentare – osi mettere in discussione il dogma del climate change causato dall’uomo. Questa tecnica, ben conosciuta fin dai tempi della retorica classica, consiste nel demonizzare l’avversario squalificandolo a priori e a prescindere, così da non doversi prendere neppure la briga di cimentarsi dialetticamente con il medesimo. Già l’uso della parola “negazionista” è di per sé odioso, e sinistramente evocativo, perché richiama quanti negano non solo un fatto conclamato, ma addirittura l’olocausto degli ebrei da parte dei nazisti.

Tuttavia, esso non si traduce solo in un colpo basso lessicale, gravemente offensivo (alla luce di quanto testé evidenziato) per l’occasionale interlocutore. Siamo anche di fronte a un artificio oratorio basato su un presupposto di fatto fasullo. Infatti, moltissimi tra coloro i quali avanzano dubbi sul tema in oggetto non negano affatto l’esistenza di fenomeni estremi in natura e neppure l’innalzamento della temperatura del pianeta. Essi si limitano a suggerire più cautela nell’imputare tale escalation (senza se e senza ma) alle attività dell’uomo e alle eccessive emissioni di CO2; tra l’altro, quasi sempre richiamandosi a fonti autorevoli. Si pensi, ad esempio, agli scienziati e accademici italiani di Clintel-Italia, firmatari della petizione del 24 febbraio 2023 (indirizzata al Presidente del Consiglio) dove si invoca una “sfida al confronto scientifico al quale gli assertori dell’emergenza climatica indotta dalle emissioni antropiche di CO2 si sono sempre sottratti”. Non risulta che, ad oggi, tale invito sia stato riscontrato da chicchessia.

Ad ogni buon conto, ecco che, dinanzi a obiezioni pur basate su dati di realtà e su elaborazioni scientifiche, irrompe la seconda fallacia: quella dell’argomentum ad auctoritatem (ben miscelato con quello ad populum). Funziona, più o meno, così: siccome la maggioranza degli scienziati mondiali individua nelle attività antropiche la causa del riscaldamento globale, e poiché “tutti lo sanno”, allora tale teoria deve non solo prevalere, ma fare terra bruciata di ogni altra, per una questione di “numeri” e di consenso popolare. Ovviamente, chi formula tale eccezione non si rende conto della sua fragilità sostanziale (pari solo alla sua forza apparente). Infatti, anche i critici della narrativa oggi dominante sono scienziati (e un tanto valga a smascherare la fallacia ad auctoritatem). Di più: l’unico modo per formarsi una fondata opinione sulla plausibilità delle due contrapposte tesi sarebbe quello di poter porre a confronto le reciproche argomentazioni. Rendendo così possibile soppesare la credibilità delle medesime e la persuasività dei rispettivi sostenitori. Soprattutto, non derubricando puerilmente la faccenda a una mera sfida agonistica tra opposte fazioni dove conta il presunto (prevalente) “sentire” della gente (e un tanto valga a smascherare la fallacia ad populum).

Veniamo, adesso, al secondo aspetto. Foss’anche vero che le recenti esondazioni sono causate solo dall’uomo (convinzione quantomeno messa in dubbio dalle innumerevoli calamità similari, avvenute in tempi anche assai risalenti, nei medesimi luoghi), come si può soprassedere sulla responsabilità degli amministratori oggi preposti al governo dei territori colpiti? Se è ormai risaputo che tali disastri sono resi più frequenti e probabili dal climate change, ciò dovrebbe condurre ad un più vigoroso impegno e a una più severa attenzione nell’approntare le adeguate (e, letteralmente, “terra terra”) contromisure: dalla pulizia degli alvei dei fiumi all’incremento della vasche di laminazione.

Ergo, rispetto ai politici e ai rappresentanti degli enti locali interessati dal fenomeno, il cambiamento climatico, foss’anche di origine antropica, non dovrebbe rappresentare un alibi, ma semmai un’aggravante davanti ad evidenti (e inescusabili) inerzie.

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