Cultura

La paura per il Tondo Doni, la commozione per un quadro squartato: il racconto dei vertici degli Uffizi sulla notte di via dei Georgofili

Annamaria Petrioli Tofani, Antonio Natali e Cristina Acidini ripercorrono con i ricordi l'angoscia per le opere d'arte custodite al museo. E poi, soprattutto, la rabbia: "Contro chi aveva osato profanare un tempio laico come un museo, introducendo distruzione e morte in un luogo della cultura"

di Marco Ferri

La bomba mafiosa di via dei Georgofili che causò la morte di cinque persone – i coniugi Fabrizio Nencioni (39 anni) e Angela Fiume (31 anni) con le loro figlie Nadia (9 anni) e Caterina (appena 50 giorni di vita) e lo studente Dario Capolicchio (22 anni) – e il ferimento di una quarantina di persone. Dieci anni fa, il 27 maggio 2013, in occasione del 20esimo anniversario l’intero complesso monumentale degli Uffizi fu completamente circondato dal girotondo di oltre mille bambini delle scuole fiorentine che appresero una lezione di storia contemporanea in una maniera che non avrebbero dimenticato. In quell’occasione l’allora soprintendente per il Polo museale fiorentino, Cristina Acidini, disse che “talvolta, anche i musei hanno bisogno di essere abbracciati“, perché vittime della barbarie e della violenza di uomini senza scrupoli, né un briciolo di cultura e di rispetto.

Cosa accadde, dunque, al patrimonio culturale la notte tra il 26 e il 27 maggio 1993, quando quasi 280 chili di esplosivo scoppiarono in via dei Georgofili, strada sul retro del museo tra i più famosi del mondo? Ilfattoquotidiano.it ha chiesto di ricordare quei momenti drammatici ad alcuni di coloro che in quel momento guidavano la Galleria degli Uffizi e l’Accademia dei Georgofili.

“Nel pieno della notte ricevetti un’angosciata telefonata dai custodi notturni degli Uffizi che mi avvertirono che era accaduto qualcosa di terribile, ma di cui non capivano l’origine”. Inizia così il racconto di Annamaria Petrioli Tofani, allora direttrice della Galleria degli Uffizi. All’inizio, continua, si pensò che forse potesse essere una fuga di gas che aveva provocato “una devastazione”. “Mi precipitai al museo e con loro affrontai una prima ispezione per verificare l’entità dei danni alla luce delle sole torce, poiché l’energia elettrica era saltata”. L’ispezione, sottolinea, fu difficile “non solo per l’angoscia e la preoccupazione che opprimeva tutti”, ma anche “per le difficoltà oggettive perché calpestavamo cumuli di detriti, pezzi di vetro o di intonaco che rendevano difficile il procedere”. “In maniera superficiale – spiega ancora Petrioli Tofani – cominciammo a esaminare la situazione dei dipinti finché arrivammo a ciò che in fondo al mio cuore mi turbava di più: il Tondo Doni di Michelangelo“. Da poco tempo l’opera era stata protetta da un vetro di sicurezza. La direttrice e i suoi collaboratori lo trovarono frantumato in mille pezzi: “Ma fortunatamente aveva difeso l’incolumità del dipinto. Fu un sollievo che durò poco, perché intorno assistemmo a una devastazione inimmaginabile”. Nella sala adiacente, per esempio, Petrioli Tofani vede La morte di Adone, capolavoro di Sebastiano del Piombo, “attraversato da una lacerazione che prendeva tutta la tela”. Il gruppo di esperti non poté entrare nel Corridoio Vasariano: “I detriti ne ostruivano completamente l’accesso e infatti fu lì che si verificò il danno maggiore, con la perdita totale, irrimediabile, di tre capolavori della corrente caravaggesca, come L’adorazione dei pastori di Gherardo delle Notti e due importanti dipinti, Il concerto e I giocatori di carte, di Bartolomeo Manfredi, anch’essi completamente distrutti”.

Quando la direttrice scende nel piazzale si incrocia con il magistrato Pierluigi Vigna: “Gli rivolsi una domanda forse sciocca, ma in cuor mio speravo di aver ragione: gli chiesi se si trattava di una fuga di gas. Lui non rispose, ma alzò gli occhi al cielo, con un volto ormai diventato grigio. Da lì capii che si trattava di qualcosa ben di peggio di una fuga di gas. Nel frattempo l’angoscia non smetteva di crescere: ci rendemmo conto del disastro accaduto all’Accademia dei Georgofili, della perdita di vite umane, dei tanti feriti”. Da allora all’angoscia subentrò la rabbia “contro chi aveva osato profanare un tempio laico come un museo, introducendo distruzione e morte in un luogo della cultura, della civiltà, della razionalità”. Così in quei giorni, in quelle settimane successive alla strage, tra tutti i dipendenti si formò uno spirito di corpo. “Caddero le differenze tra funzionari e custodi – racconta Petrioli Tofani – tra fotografi e restauratori, tra impiegati e assistenti: tutti lavorammo con un unico scopo e con la forza che ci veniva da questa rabbia e dalla volontà di dimostrare che la civiltà e il pensiero culturale non potevano venire annientati da esseri malvagi che operavano all’ombra dell’ignoranza”. E’ così che solo venti giorni dopo l’attentato il 60 per cento delle sale degli Uffici fu riaperto al pubblico, con nuovi allestimenti e in condizioni di sicurezza. Per il museo arrivarono offerte di ogni genere da tutto il mondo per il restauro del 40 percento che ancora era da riqualificare. “Per esempio – racconta l’ex direttrice – nacque l’associazione degli Amici degli Uffizi che, non solo consentì in quei primi momenti di spendere in maniera corretta i tanti fondi che privati da tutto il mondo ci inviavano, ma ha continuato e tuttora continua a svolgere un lavoro di appoggio al museo molto significativo”. Tra coloro che si offrirono di aiutare gli Uffizi anche Giuliano Gori, celebre collezionista di arte contemporanea. “Considerate le sue grandi competenze – ricorda l’ex direttrice – a lui chiesi la possibilità di sostituire le opere perdute irrimediabilmente con altre di artisti di questa nostra generazione che è la stessa in cui sono nati i delinquenti che hanno portato a questa rovina. Gori accettò con entusiasmo: si formò un comitato e artisti di tutto il mondo risposero con generosità a questo appello. In qualche modo le perdite del patrimonio artistico degli Uffizi sono state reintegrate da artisti del nostro tempo”.

Tra i collaboratori più stretti dell’allora direttrice degli Uffizi vi era anche Antonio Natali, che poi avrebbe diretto la Galleria tra il 2006 il 2015, e che quella notte se la ricorda ancora molto bene. Anche la sua notte iniziò con una telefonata. “Il ricordo più toccante di quella notte è entrare nel primo corridoio, quello che ha subito meno danni, e vedere per terra tanti ritratti dipinti della serie Gioviana, volati via dal loro alloggiamento in alto, con le finestre aperte, scardinate dallo scoppio. Fu una sensazione tremenda, con le luci livide delle fotoelettriche, con le ombre proiettate sui soffitti e un odore acre, aspro. Noi eravamo convinti si trattasse dello scoppio di una bombola di gas per cui girai per le sale della Galleria e mi ricordo di un’opera di Sebastiano Del Piombo, appena tornata dal restauro, che non era lacerata, ma appariva come tagliata e la tela penzolava fuori dal quadro. Mi venne un nodo alla gola e un senso tra rabbia, disperazione, dolore. Ovviamente la rabbia divenne ira quando sapemmo le cause di quel che era successo. E mi ricordo che camminando per i corridoi degli Uffizi raccolsi uno strano oggetto metallico, mi passò vicino un poliziotto in borghese che mi chiese di consegnargli quell’oggetto che poi seppi essere un pezzo della bomba. E dall’alto mi ricordai di aver visto bene il luogo dove era stato parcheggiato il fiorino con l’esplosivo, poiché vi era una gran buca, non tanto larga quanto profonda”.

In seguito Natali ha avuto a che fare per oltre 20 anni con le opere che furono danneggiate irreparabilmente quella notte: “Ricordo anche con un po’ di orgoglio – dice l’ex direttore del museo – che L’adorazione dei pastori di Gherardo delle Notti, subito velinata perché era stata sbatacchiata, non era neanche tanto lacerata, ma lo spostamento d’aria aveva espulso in forma di polvere il colore dalla tela, che giaceva a terra, irrecuperabile ovviamente. Col passare del tempo la tenevo comunque in deposito e mi accorsi che ciò che era perduto non era il 95 percento della pittura, ma essendo un’opera caravaggesca, un quadro a lume di notte, la parte preponderante era il cielo notturno e quel colore era rimasto, anche se si vedeva poco. Purtroppo avevamo perso un buon 50 percento di pittura e non era possibile reintegrare le parti mancanti, come la fonte della luce cioè il Bambin Gesù, ma io mi impuntai, la volli restaurare e venne fuori quel che era. Alla fine del restauro parlai con il poeta Mario Luzi e gli chiesi se poteva scrivere una poesia, così come aveva fatto per l’attentato (Sia detto, ndr). All’inizio mi disse che forse non ce l’avrebbe fatta, poi mi richiamò e mi consigliò di prendere quella poesia e di rimaneggiarla. Allora feci incidere su pietra serena alcuni degli ultimi versi di quella poesia, ovvero Ti soccorra la tua pietà antica, ti sorregga una fierezza nuova. Dopo l’opera fu rimessa in deposito, come memoria della crudeltà vigliacca di questa gente, che colpisce nella notte mietendo vite che hanno avuto solo la sfortuna di essere nel luogo dove fu collocata la bomba per altre ragioni”.

Infine il ricordo di Cristina Acidini, all’epoca vicario del soprintendente Antonio Paolucci. Era in albergo, a Roma. Seppe tutto al mattino presto dalla voce di Marco Chiarini, direttore della Galleria Palatina: “Con la moglie Françoise era venuto a presentare un mio libro, mi riferì solo che nella notte ‘erano esplosi gli Uffizi’. In assenza di social network, solo i tg potevano sommariamente informarci. Ci precipitammo a Firenze col primo treno utile e agli Uffizi trovammo uno scenario di guerra, nel quale però erano già ordinatamente al lavoro funzionari e restauratori, mentre intorno premevano giornalisti e fotografi”. Fu lei ad accogliere il presidente del Senato Giovanni Spadolini “come tutti addolorato e furioso”. “Salimmo a stento le scale dette dell’Archivio di Stato, nel braccio di Levante, in mezzo ai militari che formando una catena umana si passavano in discesa secchi di detriti, e percorremmo sgomenti i corridoi tappezzati di schegge di vetro: erano esplosi tutti i finestroni. Su quello strato di frantumi aguzzi, le mie scarpe leggere si dimostrarono del tutto fuori luogo, un vero simbolo dell’inadeguatezza di chi è colto alla sprovvista da una calamità impensabile”.

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Nella foto in alto – I vigili del fuoco al lavoro davanti ai cumuli di macerie provocate dall’esplosione di via dei Georgofili

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