“In Emilia in questo campo c’è troppo poco cemento… se avessero messo più cemento sugli argini… o dove andava messo, non lo so, probabilmente ci sarebbero stati meno danni” dice il direttore di Libero Alessandro Sallusti arrivando al paragone (sbalorditivo per quanto sbagliato) con il disastro del Vajont, nel quale morirono oltre 1.900 persone non per colpa di un’alluvione – come dice Sallusti – ma perché un frana precipitò in una diga artificiale costruita dall’uomo.

Il ragionamento di Sallusti, a prescindere dallo spericolato parallelo con l’immane tragedia di Longarone, è che i disastri naturali ci sono sempre stati, che il cambiamento climatico non c’entra niente e che, alla faccia della battaglia contro il consumo di suolo, la soluzione per contenere i fiumi è più cemento sugli argini. Una visione superata da anni, però. Gli studi, non solo degli ambientalisti, mirano esattamente dalla parte opposta. È noto – del resto – che il cemento finisca per non dare una via di sfogo all’acqua in eccesso, incanalandola più velocemente e portando a più frequenti esondazioni. Tradotto: un corso d’acqua “canalizzato” è più pericoloso di uno che ha attorno a sé una vegetazione ricca, ampie zone di esondazione, golene o vasche di laminazione.

In un lungo report del 2019 sullo stato dei fiumi italiani, il Wwf aveva spiegato come un “ecosistema fluviale con boschi ripariali e zone umide costituisce una ‘spugna’ naturale in grado di assorbire acqua durante le piene (favorendo la ricarica delle falde) e riducendo i picchi di piena, rallentando la velocità delle acque e disperdendo l’energia in un fronte più ampio restituendola gradualmente all’alveo durante i periodi più siccitosi”. In pratica, il verde attorno ad argini naturali svolge “un’azione regolatrice essenziale e fondamentale” per “ridurre la vulnerabilità dei nostri territori sottoposti a sempre più frequenti e straordinarie sollecitazioni climatiche”.

L’obiettivo, del resto, è quello di “dissipare” l’energia di fiumi e torrenti, non di incanalarla. Tutto l’opposto, cioè, di ciò che è avvenuto negli ultimi decenni con la cementificazione delle sponde fluviali, sbarramenti con le dighe e tombature (come ad esempio con il torrente Seveso a Milano). La cementificazione negli alvei dei corsi d’acqua, riducendo la permeabilità del terreno, fa innalzare più velocemente la portata aumentando il rischio di allagamenti ed esondazioni, a maggior ragione con precipitazioni sempre più violente e concentrate in brevi periodi di tempo.

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Foto in alto – Nuova protezione del torrente Via Cupa alla periferia di Ravenna: si rafforza l’argine per proteggere il centro della città (Gianluigi Basilietti/Ansa)

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