“Il problema in Emilia è che forse dovevano mettere un po’ più di cemento. Quando la natura decide, accade ed è sempre accaduto”: a dirlo è il direttore di Libero Alessandro Sallusti, durante una puntata di Otto e mezzo su La7. Ma mentre Pierluigi Bersani strabuzzava gli occhi, Sallusti si era già inerpicato in una spericolato parallelo e in una sbilenca ricostruzione del disastro del Vajont (che ha collocato “nel 1960 o poco prima” e invece è datata 9 ottobre 1963). “Ci fu l’alluvione del Vajont” ha detto Sallusti paragonandolo alle inondazioni di questi giorni in Romagna. Tuttavia ciò che accadde in provincia di Belluno non fu un’alluvione, ma l’effetto di una frana che era attesa, monitorata ma che si verificò all’improvviso.

Una enorme massa di terra si staccò dal monte Toc e precipitò nell’invaso della diga che la Sade (Società adriatica di elettricità) aveva costruito per farne un bacino artificiale destinato ad alimentare il progetto “Grande Vajont” per la produzione di energia elettrica. A spazzare via il paese non fu un’alluvione, ma la grande ondata provocata dalla caduta della frana nel bacino, che scavalcò la diga e si abbatté sulla piana di Longarone, solcata dal fiume Piave. Le vittime, in buona parte non riconosciute, furono quasi 2mila, (e non “quasi mille” come dice Sallusti) con un numero di 1.908 persone accertato in sede processuale e 1.910 morti riscontrati in base ad accertamenti anagrafici condotti per quarant’anni. È il bilancio più grave per un evento del genere nella storia italiana, e non solo.

Il direttore di Libero ha infine utilizzato il riferimento al Vajont per negare che l’alluvione in Romagna sia il frutto della crisi climatica. “Con il Vajont non c’era l’allarme climatico, quando la natura decide di fare quelle cose lì non è questione di allarme climatico, è questione che accade, è sempre accaduto e purtroppo accadrà sempre”. Una sorta di ineluttabilità di fronte alle forze della natura che forse contraddistingue una parte dei disastri che accadono in Italia, ma sicuramente non la tragedia del Vajont. In quel caso la causa fu addirittura un eccesso di cemento o per lo meno la presunzione dell’uomo che aveva realizzato una diga in cemento armato per ottenere – come ha scritto lo storico Maurizio Reberschak – “una sistematica utilizzazione delle acque del torrente Vajont, finalizzata allo scopo di produzione di energia elettrica, ideata dall’ing. Carlo Semenza, il progettista del ‘Grande Vajont’”.

Il disastro fu l’effetto di un progetto umano pieno di errori e sottovalutazioni ambientali (come hanno dimostrato i processi), non della natura. Lo storico Reberschak lo spiega benissimo: la diga in cemento alta 265,50 metri resse, ma fu lo smottamento provocato dall’acqua del bacino, alle pendici del monte Toc, a causare l’esito finale. “Con l’innalzamento dell’invaso fino a quota 710 riprendono a manifestarsi ancor più intensamente spostamenti, smottamenti, scosse, frane lungo le sponde del bacino. Le apprensioni si fanno più sollecite e si comincia a prendere paura. Si avvia quindi rapidamente lo svaso del lago. E gli eventi precipitano… Dall’1 ottobre 1963 la frana è in deciso movimento. Il 6 ottobre si vede che la strada sulla sponda sinistra è completamente sconvolta con avvallamenti, gli alberi risultano fortemente inclinati o divelti; si odono boati con conseguenti tremolii e colpi sordi molto profondi. L’indomani fessure e spaccature, all’inizio di un metro di larghezza, si allargano a vista d’occhio. È evidente che la frana si appresta ormai a cadere, anzi che il Toc sta per cadere. Il panico è diffuso, il terreno si muove in forma evidente e a vista d’occhio, tutto può precipitare da un momento all’altro”. Uno dei progettisti, l’ingegnere Alberico Biadene, commenta: “Che Iddio ce la mandi buona”.

Iddio non lo ascoltò. La natura aveva lanciato gli avvertimenti all’uomo. Poi scaricò una massa di 266 milioni di metri cubi di terra, per un fronte di due chilometri, nel bacino del Vajont, a una velocità che è stata calcolata in 50-60 chilometri all’ora, con punte fino a 100 chilometri. È così che 50 milioni di metri cubi d’acqua furono spostati di colpo e sollevati con forza violentissima, abbattendosi su Longarone e le sue frazioni, 300 metri più in basso. La sicurezza ambientale era stata sacrificata alla ricerca del profitto e la montagna violentata si era vendicata.

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