Niente legittima difesa, né eccesso colposo. Alex Pompa, che la sera del 30 aprile 2020 uccise con 34 coltellate – sferrate con 6 diversi coltelli – il padre Giuseppe nel loro appartamento di Collegno (Torino), deve essere condannato per omicidio volontario. Tuttavia la norma che vieta di bilanciare l’aggravante del vincolo di parentela con alcune attenuanti (tra cui, in questo caso, quello della provocazione) rischia di violare gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Per questa ragione la Corte d’Assise d’Appello di Torino presieduta dalla giudice Maria Cristina Domaneschi ieri ha deciso di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma introdotta dal “Codice Rosso”. Solo dopo la decisione della Consulta e un eventuale successivo intervento del Parlamento, perciò, il collegio potrà stabilire quanti anni dovrà scontare il 24enne. Una pena di certo più bassa rispetto alla richiesta del pubblico ministero Alessandro Aghemo, che per lui aveva chiesto 14 anni di carcere.

Il dispositivo, letto ieri sera al termine di una camera di consiglio durata 6 ore, ha confermato l’impianto accusatorio della procura, almeno per quanto riguarda la fattispecie di reato e l’esclusione delle scriminanti. In primo grado il giovane, 21enne all’epoca dei fatti, era stato assolto per legittima difesa: i giudici della Corte d’Assise infatti avevano ritenuto che il ragazzo avesse agito per difendere la madre da una sicura violenza, forse dalla morte, e che in quel modo avesse scelto “tra vivere o morire”. Una tesi sempre contestata dal pm, che a più riprese durante l’istruttoria ha descritto la condotta di Alex come “dominata dall’angoscia” e “abnorme” rispetto al pericolo che si profilava per sé, la madre e il fratello Loris. Secondo la ricostruzione agli atti, quella sera il padre, un uomo violento e morbosamente geloso della moglie, aveva minacciato i familiari di morte: “Vi ammazzo, venite sotto, vi faccio a pezzettini”, avrebbe detto. A quel punto i due fratelli hanno chiesto aiuto via sms allo zio, fratello del padre, mentre la madre si sarebbe chiusa in bagno. “Ho visto mio padre andare verso la cucina. Allora l’ho anticipato, ho preso un coltello (da cucina, con la punta arrotondata, ndr). Poi non ricordo più nulla”, ha dichiarato l’imputato ai giudici. Alex ha sempre ammesso le sue responsabilità, a partire dalla chiamata ai Carabinieri con cui la sera stessa confessò l’omicidio. Durante tutto il dibattimento, i suoi racconti sono stati lucidi e coerenti solo fino al momento in cui ha impugnato il coltello, mentre da lì in poi sono puntellati di “non ricordo”. Proprio questa circostanza, insieme alle dichiarazioni rese dalla madre e dal fratello – unici due testimoni dei fatti – hanno convinto la Corte dell’“evidente tentativo di sfuggire alle domande” sulla ricostruzione degli avvenimenti, per spostare l’attenzione sul contesto familiare. Nel dispositivo i testimoni sono definiti “reticenti e scarsamente credibili” e i loro racconti “incongruenti”.

“Giuseppe Pompa è morto perché si è dedotto che si stesse recando in cucina, ma in quel momento era disarmato. Bisognava stabilire che volesse andare in cucina e che ci andasse per prendere il coltello. E anche a voler pensare che la sequenza fosse poi quella temuta, quali coltelli avrebbe trovato? Quelli usati per mangiare. Anche il padre avrebbe usato contro di loro il coltello con la punta arrotondata. Nessuno qui presente avrebbe ritenuto di ucciderlo perché niente imponeva o dava la necessità di ucciderlo”, ha dichiarato il pm. “Il padre avrebbe usato gli stessi coltelli poi usati da Alex, cioè quelli disponibili in casa, con la lama da 22/23 centimetri – ha replicato il difensore Claudio Strata – Era indemoniato da ore, non aveva altra ragione per andare in cucina se non per armarsi e dare seguito alle minacce di morte ribadite quella sera”. Per il legale, che ha richiamato l’esito della perizia, “l’azione si è protratta perché il padre non ha desistito nemmeno quando è stato colpito allo sterno. Aveva ancora l’energia per reagire e questo spiega perché sia arrivata la necessità di eliminare il pericolo”.

Gli accessi di rabbia e le violenze del padre sono documentati anche da centinaia di file audio, che Alex e il fratello Loris hanno registrato e conservato per anni, quasi nell’aspettativa di doverne, prima o poi, dare conto a un giudice. Da quelle clip – oltre 9 ore di registrazioni – emerge il ritratto di un uomo definito “possessivo, geloso e violento”. Nella sua arringa il difensore ne ha evocata una in particolare, in cui il padre dice di odiare i figli e li minaccia di morte. “Dall’audio del 5 dicembre 2016 già si evince che sulla famiglia gravava un pericolo incombente che non li ha mai abbandonati fino a quella sera. Il vicino del piano di sotto ha detto ‘Avrei avuto paura a vivere in quella casa’”. Un intervento concluso con una richiesta accorata: “Vi chiedo di liberare Alex da questo tormento e mi auguro che ora possa iniziare una vita normale, perché finora non ha vissuto”. Il legale ora ha annunciato che farà ricorso in Cassazione. “Sono molto amareggiato. Alex non è un assassino e questo non è un omicidio”, ha dichiarato. Una frase ripetuta dalla madre: “Alex non è un assassino. Basta guardarlo negli occhi per capirlo. Se non fosse stato per lui io non sarei viva, non sarei qui. Sì, forse è questo che non sono riuscita a far capire alla corte”.

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