Solo 79 milioni contro i 343 preventivati (su 15,6 miliardi totali) per la “missione” Salute. Meno di 240 milioni contro i 631 previsti per Inclusione e coesione sociale, che di miliardi a valere sul Pnrr ne ha a disposizione 19,8 totali. E 2,4 miliardi contro i 6,4 che avrebbero dovuto essere utilizzati per la transizione ecologica, il capitolo più pesante con 59,4 nell’intero arco del piano. Sono le cifre che l’Italia è riuscita a spendere nei primi tre anni di operatività del Piano nazionale di ripresa e resilienza a confronto con il cronoprogramma iniziale del governo Draghi. Il quadro, che dà la misura del pantano in cui è finito il Recovery e spiega l’appello del capo dello Stato Sergio Mattarella a “mettersi alla stanga”, emerge dalla preoccupante ricognizione della Corte dei Conti che sarà presentata martedì al Parlamento. Le tabelle del documento non si limitano a sancire che al dicembre 2022 – escludendo gli esborsi per crediti d’imposta che operano in automaticosolo 10 dei 191,4 miliardi della Recovery and resilience facility (il 6%) era stato “messo a terra”. Ma permettono anche di ricostruire con un certo dettaglio quali capitoli scontino i maggiori ritardi, dovuti come è noto a un enorme deficit di capacità amministrativa non colmato in tempi utili oltre che a problemi contingenti come l’aumento dei costi delle materie prime che ha rallentato l’aggiudicazione di alcuni appalti.

Stando alle prime previsioni, scritte nella primavera 2021, alla fine dello scorso anno la spesa complessiva avrebbe dovuto superare i 40 miliardi. Cifra che è poi stata più volte rivista decisamente al ribasso. A fine 2022 il nuovo ministro Raffaele Fitto ha annunciato che difficilmente si sarebbe arrivati ai 21 miliardi stimati nella Nadef autunnale. E ora la magistratura contabile abbassa ulteriormente l’asticella: sulla base dei dati di tesoreria e del sistema di rendicontazione Regis si arriva a 23 miliardi (12% del totale) solo comprendendo ecobonus, sismabonus e crediti per l’acquisto di beni strumentali previsti dal piano Transizione 4.0. Uscite che però funzionano sulla base delle richieste di imprese e famiglie e nulla dicono sulla capacità di gestione della pa. Senza considerare quelle tre misure, si scende appunto a 10 miliardi.

Ma quello che conta è anche in questo caso il confronto tra spesa davvero sostenuta e piani iniziali. La Corte rileva che solo tre componenti su 16 hanno corso più di quanto previsto nel cronoprogramma, anche stavolta depurato dai bonus edilizi: si tratta di Digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo (che comprende la fornitura di banda ultra-larga e connessioni veloci in tutto il Paese), Dalla ricerca all’impresa e Intermodalità e logistica integrata. A zero invece il progresso della componente Agricoltura sostenibile ed Economia circolare, fermo al 4,8% quello di Turismo e cultura 4.0, molto indietro la missione Salute con il 23% della spesa preventivata (al palo le Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale) e Inclusione e coesione 37,8%. La sottocategoria Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore, che comprende gli interventi in favore degli anziani non autosufficienti ma anche l’housing temporaneo per le persone senza fissa dimora e il superamento dei ghetti in cui vivono i lavoratori dell’agricoltura in alcune zone d’Italia, non va oltre il 27,6% della spesa.

L’unica missione per cui il rapporto tra spesa sostenuta e totale delle risorse supera il 10% è “Infrastrutture per una mobilità sostenibile” (16,4%), aiutata dal fatto che lì dentro sono finiti molti progetti che giacevano da anni nei cassetti del ministero dei Trasporti. Istruzione e ricerca, Inclusione e coesione e Salute non arrivano al 5%, rileva la magistratura contabile. Una débâcle che ha imposto corposi aggiornamenti dei piani: le spese originariamente previste nel primo triennio sono state spostate in avanti nella speranza che i vari provvedimenti di semplificazione e le previste stabilizzazioni degli assunti a tempo determinato nella pa accelerino la messa a terra. Il problema è che ora i recuperi attesi fanno tremare le vene: “Nel biennio 2024-2025 è stimato il picco di spesa, con valori annuali che supereranno i 45 miliardi, in aumento, rispettivamente, di 2,8 e 7,5 miliardi rispetto all’articolazione temporale di partenza”. La magistratura contabile avverte che questa è l’ultima chiamata: il nuovo cronoprogramma finanziario deve ora trovare “piena corrispondenza nel progresso attuativo delle misure che compongono il Piano, limitando ulteriori revisioni e conseguenti traslazioni in avanti della spesa”.

Un obiettivo che continua ad apparire fuori portata posto che, come ricorda la Corte nel secondo tomo della relazione, “da mesi, in particolare nel Mezzogiorno, viene lamentata la carenza di personale. Non solo da punto di vista numerico ma anche qualitativo. Molte amministrazioni, infatti, non hanno competenze adeguate per seguire procedure così complesse come quelle del Pnrr. Il riscontro effettuato con le Amministrazioni interessate fa registrare come, nonostante il notevole sforzo effettuato per intensificare il reclutamento, permangono all’interno degli uffici condizioni penalizzanti quali l’elevata età media e l’insufficiente presenza delle relative competenze (dagli ingegneri, agli specialisti di appalti, agli informatici, ai tecnici Ict) soprattutto se coniugate in chiave digitale. Una situazione che a sua volta dipende, almeno in una certa misura, dal sostanziale blocco delle assunzioni che ha caratterizzato lo scorso decennio, per il risanamento dei conti pubblici“. L’austerità insomma presenta il conto.

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