Sulla carta, il governo Draghi si congeda lasciando in perfetto ordine il dossier del Recovery plan. Tutti gli obiettivi previsti fino al primo semestre 2022 sono stati raggiunti, dopo il prefinanziamento è stata incassata la prima rata da 21 miliardi e la seconda è in arrivo. Non solo: Palazzo Chigi ha fatto sapere di essere al lavoro per mandare in porto entro fine ottobre almeno 29 delle 55 scadenze fissate per il 31 dicembre di quest’anno. Ma le “milestone” che la Commissione ha valutato finora sono qualitative: decreti attuativi e regolamenti da approvare, relazioni da scrivere, bandi da aggiudicare. E’ solo nei prossimi anni che scatterà il controllo sul rispetto dei target quantitativi. In parole povere: i soldi arrivati dall’Europa sono stati davvero spesi? La risposta è negativa e a dirlo è lo stesso ministero dell’Economia. Che nella Nota di aggiornamento al Def ammette come le risorse effettivamente utilizzate tra 2020 e 2022 si fermino a 20,5 miliardi. Contro gli oltre 41 previsti dal cronoprogramma iniziale.

“L’ammontare di risorse effettivamente spese per i progetti del Pnrr nel corso di quest’anno sarà inferiore alle proiezioni presentate nel Def per il ritardato avvio di alcuni progetti che riflette, oltre i tempi di adattamento alle innovative procedure del Pnrr, gli effetti dell’impennata dei costi delle opere pubbliche, si legge nella premessa firmata dal ministro Daniele Franco. Insomma: il rincaro delle materie prime sta mandando deserte le prime gare, come accaduto in giugno per quella per la nuova diga foranea del porto di Genova (un’opera da 1 miliardo di euro, tra le più grandi del Piano). E il meccanismo messo a punto dal governo per aggiornare i bandi tenendo conto degli extra costi è partito tardi: solo a metà settembre è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il Dpcm con le modalità di accesso al Fondo per l’avvio di opere indifferibili finanziato con 7,5 miliardi.

Il risultato, spiega la Nadef, è che “per gli investimenti fissi lordi della PA si prevede una battuta d’arresto nell’anno in corso, a causa della posticipazione di alcune spese per investimenti relative al PNRR dal 2022 agli anni successivi, rispetto alle previsioni di aprile. La concreta attuazione dei progetti del PNRR si sta rivelando complessa. Ciò deriva dal fatto che molti progetti altamente innovativi sono attuati tramite la predisposizione di bandi di concorso. Lo svolgimento dei bandi richiede tempo e spinge inevitabilmente la spesa prevista per il 2022 verso gli anni 2023-2026, periodo in cui sono attesi i maggiori effetti economici del PNRR”.

In particolare, come dettaglia una tabella che mostra la differenza tra le previsioni di spesa del Def di aprile e quelle aggiornate a settembre, nel 2022 la spesa non andrà oltre i 9,5 miliardi rispetto ai 25,1 previsti dal Def. Nonostante la lieve revisione al rialzo degli esborsi 2020 e 2021, che salgono da 4,3 a 5,5 miliardi, l’utilizzo effettivo dei fondi è stato nel complesso inferiore di oltre 14 miliardi rispetto a quanto si immaginava cinque mesi fa. Il bilancio peggiora ulteriormente se si prende come riferimento il programma di spesa del 2021, quando Draghi ha inviato a Bruxelles la versione definitiva del Piano di ripresa italiano: lì si ipotizzava una spesa di oltre 41 miliardi di cui oltre 27 quest’anno. Invece il governo dimissionario ha dovuto prendere atto di ritardi importantissimi. E ha scommesso sul fatto che nel 2023, nonostante la congiuntura internazionale, il Paese sarà in grado di recuperare gran parte del terreno perso mettendo a terra la bellezza di 25,9 miliardi di investimenti in un solo anno.

La possibilità di rispettare il piano sembra a questo punto legata a doppio filo a una correzione del cronoprogramma, del resto consentita dal regolamento istitutivo della Recovery and resilience facility in circostanze eccezionali. Sarà il nuovo esecutivo, a probabile guida di Giorgia Meloni, a dover negoziare con la Commissione la mini revisione partendo inevitabilmente da una posizione di minor forza rispetto ai predecessori. L’iter di per sé non è breve e rischia a sua volta di far perdere tempo prezioso. Il che significa nuovi slittamenti nell’attuazione e una minore spinta al pil, già rivisto al ribasso a causa della crisi energetica. Una delle tante grane con cui dovrà fare i conti il prossimo governo.

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