Monsieur le Président può trarre un sospiro di sollievo alla fine di questo 2022 che gli ha portato una rielezione non scontata. Un altro capodanno all’Eliseo è assicurato e così almeno fino al 2027. Prima di lui, a fare il bis, c’erano riusciti soltanto Jacques Chirac e François Mitterand. E naturalmente Charles de Gaulle, ma lui era de Gaulle. Non c’è comunque da brindare troppo, e Macron lo sa, perché se a questo giro il peggio l’ha scampato, non si può dire che abbia però ottenuto il meglio.

La forma di governo francese è piuttosto sofisticata (forse basterebbe dire che è francese) e tiene in sé elementi sia del presidenzialismo che del parlamentarismo in senso stretto e qualcosa in più. Dal modello presidenziale mutua in qualche modo la eguale derivazione popolare dell’esecutivo e del legislativo; dal parlamentarismo, invece, prende il rapporto di fiducia tra governo e Parlamento. E per complicare il tutto, il governo – come si dirà tra un attimo – ha due vertici.

Semplificando, il corpo elettorale elegge il Parlamento ed elegge anche il Presidente della Repubblica. Quest’ultimo nomina un Primo Ministro, che però deve essere gradito al Parlamento (meglio: ad uno due rami del Parlamento, l’Assemblea Nazionale), il quale può sempre, a maggioranza assoluta, sfiduciarlo e costringerlo alle dimissioni.

Non si deve credere che, in questo triangolo, il Presidente della Repubblica sia un omologo del Presidente italiano se non con la differenza di essere eletto direttamente dai cittadini. L’elezione diretta, infatti, legittima una espansione dei ruoli del Presidente francese, che non solo esercita i poteri classici di un Presidente di una repubblica presidenziale – ad esempio, lo scioglimento dell’Assemblea nazionale –, ma esercita poteri di governo, in casi eccezionali (può assumere poteri di crisi in caso di minaccia contro lo Stato) ma anche e soprattutto nell’ordinarietà della vita del Paese. Basti pensare che egli presiede il Consiglio dei Ministri. Un po’ come se Sergio Mattarella presiedesse le riunioni a Palazzo Chigi.

Ecco perché si dice che il governo francese sia bicefalo, con due teste: il Presidente e il Primo Ministro. Anzi, in sostanza di regola il capo è uno solo, il Presidente, e il Primo Ministro fa un po’ il “comandante in seconda” promuovendo un’attività di coordinamento dell’azione di governo. Un lavoro complicato, per carità – il lavoro sporco, diciamolo pure –, ma il vero comandante è il Presidente. Del resto, domandate un po’ voi in giro se qualcuno sa chi è il Presidente francese e poi chiedete chi è il Primo Ministro.

Se qualcuno si sta chiedendo da dove mai fosse saltato fuori un modello così complicato sappia che tutto deriva da un momento di crisi politica profonda, dopo il colpo di stato in Algeria del 1958 e dall’incontro tra la volontà del generale de Gaulle di un uomo forte al comando e quella di mantenere un parlamentarismo però fortemente razionalizzato, cioè al riparo dai rischi di crisi troppo frequenti. Forse, a pesare di più è la volontà di de Gaulle, che nel 1962 riesce a ottenere anche l’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente, che sfonda la strada a derive personalistiche. Nel ’62 il Presidente in carica è lui, de Gaulle, che non era stato eletto direttamente dai cittadini, ma fa niente, resterà al suo posto: lui è legittimato dalla storia.

Sebbene la peculiare origine storica renda il modello difficilmente replicabile in altri contesti, c’è da dire che, in effetti, quando tutti gli ingranaggi funzionano bene, il sistema assicura al Presidente un saldo timone del Paese – forse troppo saldo. E gli ingranaggi funzionano bene quando il Presidente e il Parlamento (meglio: la sua maggioranza) sono dello stesso colore politico. A quel punto il Presidente nominerà un Primo Ministro di suo piacimento, senza alcun rischio di sfiducia da parte del Parlamento; e si va avanti così.

In questa situazione, Macron sarebbe più potente del Presidente degli Stati Uniti, il quale invece deve far conto con maggioranze diverse, tra Camera a Senato, che non sempre gli assicurano l’appoggio parlamentare. È quasi troppo, e se ne sono accorti pure i francesi, che nel 2008, ad esempio, hanno introdotto la possibilità diffusa di impugnare una legge dinanzi alla loro Corte costituzionale, cosa che prima era impensabile.

Le cose si rovesciano, invece, quando gli ingranaggi si inceppano, cioè quando Presidente e maggioranza del Parlamento non sono allineati sulle stesse posizioni politiche. Il che può accadere, perché i due sono eletti entrambi dal corpo elettorale, ma non contestualmente. Prima del 2001, a distanza anche di due anni, perché il Presidente stava in carica per sette e il Parlamento per cinque; ma poi hanno pensato bene di rendere omogenei i tempi e quindi ora le elezioni presidenziali e quelle parlamentari si svolgono solo a qualche giorno di distanza.

Ma comunque la possibilità resta, e non è una bella possibilità, perché a quel punto il Presidente sarà costretto a nominare un Primo Ministro della squadra diversa dalla sua, per non rischiare di vederselo sfiduciato dall’Assemblea e la coabitazione, a quel punto, non sarebbe tanto facile.

Nell’anno che si chiude, questa coabitazione Macron l’ha quasi rischiata. All’Assemblea ottiene 245 seggi, ben lontano dalla maggioranza assoluta di 289, e il suo partito ne ha solo 170, mentre nel 2017 erano 308. Il sostanziale bipolarismo che aveva caratterizzato la Francia tra socialisti e repubblicani l’aveva già fatto saltare lui nel 2017, e ora è cosa assai lontana. La scena è quella di un sistema quadripolare, in cui accanto a En Marche, partito di maggioranza relativa, cresce la destra del Rassemblement National e la coalizione di sinistra, oltre a quel che resta del Partito Repubblicano.

E il segnale a Macron è arrivato subito chiaro, con una mozione di sfiducia al Primo Minsitro Élisabeth Borne venuta da sinistra a inizio luglio: non è passata, perché la sinistra da sola non ha la maggioranza assoluta richiesta. Ma il fatto che questa maggioranza non ce l’abbia da solo neanche il partito del Presidente lo costringe a un tono più incline alla mediazione e al compromesso. Certamente più di quanto immaginino gli infatuati della democrazia decidente della destra nostrana.

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