In contro tendenza rispetto al dibattito che si è aperto a “sinistra” io credo che il nodo stia proprio nei nomi.

Dopo l’evitabile vittoria di una destra per nulla irresistibile, premiata soltanto dal meccanismo elettorale e dalla inadeguatezza degli avversari, soprattutto dentro il Pd è partito il confronto sul futuro, sul dopo-Letta. E’ stato in prima battuta un fioccare di autocandidature, dichiarate ed evocate, più frettolose che coraggiose, sonoramente stoppate da un coro autorevole di voci che, in un modo o in un altro, hanno (di nuovo) scandito: prima i contenuti!

Ta-tan! Come se il male peggiore da scongiurare fosse quello della personalizzazione della politica, della seduzione di leadership che come incantano, così incatenano. Per carità, certo che questo è, da almeno trent’anni, un problema che minaccia la qualità della democrazia: poche idee, molta pubblicità, poca “promessa”, tante meschine promesse. Niente più sol dell’avvenire, soltanto consenso sentimentale ed altalenante.
Quindi, fermi tutti e tutte, si riparta dalle piattaforme valoriali, dai principi fondativi, ri-fondativi, ri-generanti, dal coinvolgimento della base, per un percorso partecipativo, inclusivo, che chiarisca identità, strategia, alleanze… Bla bla bla…

Temo che questo approccio sottovaluti due questioni.

La prima: le parole sono sempre più svuotate di significato. E’ come se avessero perso la capacità di impegnare chi le pronuncia. Ne sono state usate e contraddette talmente tante da ridursi ad un rumore di sottofondo a cui nessuno crede più. Le parole sono state al centro di così tante ingegnerie organizzative (piazze grandi, agorà, cantieri, officine…) e mediatiche che non si sa più quali pescare per stupire, per segnalare una novità. Il Pd le “parole” che servono le ha tutte: come dentro uno scatolone pieno di mattoncini della Lego, di ogni forma e colore. Ci puoi fare cosa vuoi con quei mattoncini: puoi essere social democratico, liberale, ambientalista, socialista, federalista, europeista, femminista, partigiano, antifascista e costituzionalista.

L’unico antidoto allo svuotamento delle parole è l’ancoraggio a vite vissute in un certo modo. Ecco perché i “nomi” sono decisivi. Per esempio, se le parole “lotta contro le diseguaglianze” le pronuncia uno come Marco Omizzolo, da anni impegnato al fianco dei braccianti agricoli sfruttati da un padronato degno di un racconto di Emile Zola, allora gli credo. Se le parole “centralità della scuola ed impegno contro la dispersione scolastica” le pronuncia Daniele Novara, allora gli credo. Se le parole “sconfiggere la mafia con la cultura” le pronuncia Rosario Esposito La Rossa protagonista di una rivoluzione a Scampia a colpi di libri, teatro, calcio e impresa, allora gli credo. Se Salvini dice “credo” non gli credo. Chiaro?

La seconda questione: il tempo. Siamo ad un tornante della storia vertiginoso (guerra, energia, inflazione, materie prime, crisi climatica) che dovrebbe imporre una certa umiltà: la materia prima che più scarseggia è il tempo. Dare l’impressione di averne in abbondanza di tempo è una forma di ostentazione del lusso più odiosa dei jet privati. Chi sta male di tempo non ne ha! Solo chi sta all’asciutto e nell’abbondanza pensa di avere, ancora, tutto il tempo che vuole. La misura del tempo che manca è Loujin Ahmed Nasif, morta di sete a quattro anni su un barcone in attesa di soccorsi, tra le braccia della mamma. Quanto ci mette una bambina a morire di sete?

E dunque?

La rigenerazione della sinistra può passare per un casting tra aspiranti leader auto-candidati? No, certo, perché chi si loda si imbroda e perché nella rigenerazione della sinistra una questione rilevante è quella della rappresentanza. Ma potrebbe passare dalla raccolta di candidature proposte da iscritti, elettori e simpatizzanti, attorno alle quali costruire progetto e squadra in vista di un Congresso costituente, aperto. I nomi farebbero da bandolo. Se chiudo gli occhi e faccio l’esercizio di pensare ad una persona che potrebbe interpretare il ruolo di ri-tessitore di una sinistra vincente, mi viene in mente eccome.

E’ donna e “gli occhi della tigre” li ha, senza dirlo. La posta in gioco è altissima, ma proprio per questo è possibile che si mobilitino tante energie rimaste rattrappite o mortificate: bisogna però saper infilare il filo nella cruna dell’ago, prima che sia troppo tardi. Prima che dilaghino delusione e disperazione, che riescono a spezzare anche gli animi più resistenti, più appassionati, più consapevoli, come quello di Adolfo Parmaliano che dopo una vita spesa contro la “mafia di sopra”, prima di togliersi la vita il 2 ottobre del 2008, scrisse: “Questo sistema l’ho combattuto in tutte le sedi Istituzionali. Ora sono esausto, non ho più energie per farlo e me ne vado in silenzio. Alcuni dovranno avere qualche rimorso di avere ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, SBAGLIANDO, nelle Istituzioni”.

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