Come prima cosa, a tutti gli ometti alla lettura, quando vedrete Blonde di Andrew Dominik (sarà solo su Netflix dal 23 settembre), il biopic su Marilyn Monroe, vi sentirete inevitabilmente in colpa di averla desiderata. Fisicamente, carnalmente, idealmente. Secondo la versione di Dominik, che è poi quella del romanzo di Joyce Carol Oates, quel guardarla ossessivamente, sarebbe diventato per la traumatizzata ragazza abbandonata da una madre impazzita e dal padre mai incontrato, una forma di oppressiva, insopportabile violenza psicologica. La pornografia in nuce dello sguardo spettatoriale sul corpo di Marilyn è stato un incidente, accettato, riprodotto, moltiplicato di percorso. Marilyn che ambiva a Cechov e Dostoevskij finisce preda sessuale di laidi e squallidi produttori (“come hai iniziato a fare cinema?” le chiede Joe DiMaggio nel film) e soprattutto dell’ardore di una mascolinità tossica che spesso Dominik, un gigantesco Andrew Dominik sia chiaro, sottolinea con grottesche deformazioni corporee (come le bocche degli uomini in prima fila all’anteprima di A qualcuno piace caldo) e ipertrofiche asfissianti distese di folla. L’attesissimo biopic con Ana De Armas protagonista, mimeticamente ineccepibile, propone una Marilyn monumento più che documento, un ritratto inquieto per immagini più che una cronologia storica di fatti. Una donna decadente, stordita, triste, irrisolta che subisce l’abbandono dei genitori, il desiderio dei maschi, l’impossibilità di essere madre, la caducità estrema dell’esposizione pubblica, rifugiandosi in un privato impossibile e inattuabile, privo di spiragli di rinascita, oltre la celebrità.
La storia avanza linearmente per una manciata di tappe temporali (Marilyn bambina; il triangolo piccantissimo e inventato dalla Oates tra la Monroe, un figlio di Chaplin e il figlio di Edward G.Robinson; il successo di popolarità con i primi film; il matrimonio subito fallito con Joe Di Maggio; le nozze più tenere con Arthur Miller; infine il blocco di crollo definitivo relazionale con JFK) con un assillo narrativo e concettuale fisso e carsicamente ricorrente: la foto basculante e le lettere (mai) spedite lette dalla voce fuori campo di un padre fantasma inseguito e mai incontrato. Marilyn non gode mai della sovraesposizione. Non gioisce mai del successo. Anzi subisce, strattonata, barcollante, infine guizzante e splendente, quando l’icona prende cinematograficamente vita in pubblico o sulle celebri grate ariose che le alzano la gonna bianca di Quando la moglie è in vacanza (sequenza quasi horror da applausi zeppa di flash che scoppiano come bombe), la tensione opprimente di un’esistenza fragile. Dominik traduce tutto questo in immagini, sia a colori che in bianco e nero, utilizzando diversi tipi di macchine da presa per ben quattro formati di ripresa (1.00:1 ; 1.37:1 ; 1.85:1 ; 2.39:1 ), stringendo, allargando, verticalizzando, orizzontalizzando il quadro, in modo che non ci sia mai uno spiraglio materiale per allontanarsi dal gorgo formale previsto. La scelta di una luminosità anni cinquanta modello cover di Life, con la luce che entra trasversale alle spalle della protagonista senza illuminarle direttamente il viso imprime un marchio raffinatissimo di imperturbabile realismo pauperistico rispetto alla ricchezza, mai sfarzosa, del mito tenuemente tragico di Marilyn.
Poi certo Dominik si impone anche in scelte estreme (le immagini dei feti poi abortiti) eticamente discutibili, ma fa parte di una grazia stilistica e di una maestria nel controllare il punto di vista di chi guarda (la lente degli occhiali di Miller – Adrien Brody-; Marilyn che inciampa sulla spiaggia; JFK che riceve sesso orale a letto) in soggettive funamboliche, immersive, organiche (per Kennedy una vera e propria sequenza gonzo movie) rispetto ad una sfida formale che sa di capolavoro. Di cinema, quello che ha fatto storia sui manuali, infine, ce n’è poco. Proprio perché non sono la filmografia spicciola ed elencativa di poco più di un decennio di carriera della diva che interessano a Dominik. Bensì la scelta ricade in tutti quei dettagli intimi e privati che spingono la protagonista ad una reazione antisistema che la schiaccia, come la lite con un cinico e opportunista Billy Wilder che la disegna oca in A qualcuno piace caldo. Frammento da mandare a memoria: la prima inquadratura dell’ultima sequenza – quella in casa dove Marilyn morirà suicida (o uccisa’) – che è la famosa posa in cui era stato trovato il corpo senza vita dell’attrice, ma che qui diventa il primo frammento di una fine più articolata e complessa. Comunque vietato ai 17 (primo film bollato su Netflix) in quanto abbondante in nudi femminili, violenza sessuale e addirittura peni eretti.