Ieri abbiamo ricevuto la lettera di un padre il cui figlio detenuto, qualche giorno fa, ha tentato il suicidio nel carcere Pagliarelli di Palermo e adesso è in stato di coma: Vi scrivo perché è giusto che si sappia che Roberto ha fatto quello che ha fatto perché, nonostante chiedesse aiuto ai medici per il suo stato di salute, veniva quotidianamente ignorato. Il caldo infernale lo ha distrutto, nonostante spendesse tutti i soldi che gli lasciavamo per comprare bottiglie di acqua per cercare sollievo e rianimarsi un po’. Alla fine è crollato dopo 15 giorni senza dormire e voglio farvi notare che è assurdo che si costringa il detenuto a comprare all’interno del carcere, dove i prezzi sono assurdi. Se vi ho scritto è perché sono un padre disperato (poliziotto in pensione), che vuole che queste cose non accadano più e che ci sia più attenzione verso questi ragazzi. Volevo anche far presente che a soccorrere e a rianimare mio figlio sono stati gli altri detenuti, mentre le guardie si sono solo disturbate a chiamare un’ambulanza. Prego Dio che salvi mio figlio e non auguro a nessuno di passare quello che io e la mia famiglia stiamo passando. Aiutatemi a far passare questo messaggio per poter aiutare chi si trova nella stessa situazione in cui si è venuto a trovare il mio figliolo. Grazie mille e prego affinché questo non accada più e che mio figlio Roberto si salvi. Un saluto da un padre distrutto.

Siamo arrivati a 59 suicidi dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. Quindici nel solo mese di agosto. Numeri mai visti negli ultimi anni, che si spera aprano uno squarcio di luce sulle condizioni di vita negli istituti penitenziari. Chiunque sia impegnato nella campagna elettorale non può voltare lo sguardo. Il carcere di oggi rinchiude grandi quantità di persone con storie di solitudine, di disagio psichico, di povertà, di esclusione sociale, di dipendenze. Storie che trasudano sofferenza, abbandono e disperazione e che evidenziano quanto selettivo sia il sistema penale, teso a colpire prevalentemente chi è escluso dal welfare.

G.T., morto per suicidio a 21 anni nel carcere milanese di San Vittore, era detenuto per il furto di un cellulare. Gli era stato diagnosticato un disturbo borderline della personalità e il magistrato aveva disposto il suo trasferimento – mai avvenuto – in una struttura sanitaria. Otto mesi dopo, al terzo tentativo, è riuscito a uccidersi. A.G. si è tolto la vita il giorno di Ferragosto. Aveva 24 anni, un disturbo psichiatrico e nessun precedente penale. Era di origine brasiliana, adottato da una famiglia italiana che oggi è disperata. Nessuno li aveva informati che il figlio avesse già tentato una volta di suicidarsi, prima di riuscirci alla metà di agosto. Anche il signore di 70 anni, arrestato in stato di shock e uccisosi nel carcere di Genova alla fine di giugno, aveva una diagnosi psichiatrica. F.I. aveva superato la quarantina e soffriva di anoressia. Pesava 43 chili. Si è suicidato nel reparto clinico del carcere napoletano di Poggioreale, dove era detenuto per piccoli reati. L’uomo che invece si è ucciso nel carcere di Castrovillari nel marzo scorso era dentro per aver rubato una pecora. Anche lui aveva problemi psichiatrici.

Potrei continuare con questo triste elenco, che ci mette di fronte alle responsabilità dell’intera società nell’uso selettivo e ingiusto del sistema penale. Antigone ha di recente pubblicato sul proprio sito un dossier completo su questa tragica ondata di suicidi. Quando sotto i nostri post gli odiatori da tastiera commentano che “menomale che un altro delinquente si è fatto fuori”, sappiano che stanno parlando di un signore malato di mente che ha rubato una pecora. Il carcere è troppo spesso utilizzato per persone con scarse possibilità economiche e scarsi strumenti culturali, in difficoltà nel garantirsi una difesa tecnica adeguata. Persone che finiscono in galera dopo una vita trascorsa ai margini, rispetto alle quali il carcere non riesce neanche a costituire l’ultima frontiera del sostegno sociale o terapeutico.

Cinquantanove suicidi, più di uno ogni mille detenuti presenti, è un numero enorme. Come se in un piccolo paese di cinquemila abitanti cinque o sei persone si togliessero la vita nel giro di otto mesi. Immediatamente verrebbe dichiarato lo stato di allarme. Tutti i media ne parlerebbero. Tutti si domanderebbero cosa stia accadendo in quel luogo. La notizia della morte in carcere interessa invece i soliti pochi, anche di fronte a questi numeri inconsueti e altissimi.

Ogni suicidio va sempre trattato nella sua individualità, con cautela e rispetto per la persona morta e per il dolore dei suoi cari. Tuttavia, quando i suicidi si ripetono con troppa frequenza, non possiamo non interrogarci sulle condizioni di sistema e le possibili concause di un modello sanzionatorio inutilmente vessatorio e incapace di favorire il recupero sociale. Una delle concause è sicuramente il numero troppo esiguo degli operatori penitenziari.

Nei prossimi giorni dovrebbero entrare in servizio, per un iniziale percorso di formazione, alcune decine di giovani direttori. L’ultimo concorso risaliva a circa trent’anni addietro. Ci sono regioni dove un direttore deve occuparsi di due o tre istituti, impossibilitato così a conoscere i detenuti, che resteranno a lui del tutto anonimi. Potrà solo gestire, burocraticamente, l’ordinaria amministrazione. Si colga l’occasione del concorso svolto e si assumano tutti gli oltre 100 giovani risultati idonei. Si spieghi loro che la missione costituzionale del direttore è quella di assicurare una pena umana e tendente alla risocializzazione. Il sistema penitenziario ha bisogno di risorse, ha bisogno di operatori che girino per le sezioni, che incontrino i detenuti, che li guardino in faccia.

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