Il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Carlo Renoldi ha deciso di andare in giro a visitare carceri insieme ai suoi colleghi ai vertici del Dipartimento. Lo ha fatto in questo Ferragosto doloroso per l’alto numero di suicidi che si è verificato nelle ultime settimane all’interno degli istituti di pena. Un’iniziativa importante.

Renoldi si è recato nel carcere romano femminile di Rebibbia, mentre il Vice Capo Carmelo Cantone, provveditori e direttori generali coprivano le carceri di Viterbo, Palermo Ucciardone, Messina, Genova, Lecce, Taranto, Terni, Napoli Poggioreale, Santa Maria Capua Vetere, Bologna, Modena, Ancona, Pesaro, Aosta, Udine, Oristano, Ariano Irpino.

La visita in carcere non è affatto qualcosa di formale. È piuttosto uno strumento fondamentale di conoscenza del sistema nonché di prevenzione degli abusi. Il carcere è un luogo che per propria natura può tendere verso piccoli o grandi arbitri nell’uso del potere. Tre elementi costitutivi lo spiegano: è un luogo chiuso, che tende all’opacità e a favorire l’omertà; è un’istituzione che prende in carico globalmente le persone che reclude; è abitato da due categorie di persone dal potere sociale molto differente: i custodi e i custoditi.

Visitare le carceri significa agire su tutto questo, rendere più sottili le mura delle prigioni affinché lo sguardo esterno vi penetri più facilmente. “Il carcere trasparente”, si chiamava il primo rapporto mai pubblicato dall’associazione Antigone. Quel titolo racchiudeva il programma politico che stiamo portando avanti da oltre due decenni.

Che le carceri siano visitate dalla società civile e dagli organismi indipendenti internazionali è importantissimo. Ma lo è anche che siano visitate dall’amministrazione centrale. Le stesse Mandela Rules, gli standard di detenzione elaborati a livello mondiale dalle Nazioni Unite, prevedono alla regola 82 un doppio sistema di ispezioni regolari, di cui il primo canale è rappresentato da “ispezioni interne o amministrative condotte dall’amministrazione penitenziaria centrale”.

L’iniziativa del Dap di queste ore ha dunque una grande rilevanza. In un momento drammatico come quello attuale per le carceri italiane, varcare quei cancelli da parte dei vertici Dap, camminare nelle sezioni, parlare con le persone detenute, far sentire loro la presenza dell’amministrazione centrale, mandare un messaggio unitario e centralizzato in uno scenario frammentato dove spesso ogni carcere costituisce un mondo a sé non ha nulla di formale; è invece un’azione che avrà ricadute effettive tangibili.

Lo stesso discorso si potrebbe riportare in scala per quanto riguarda singoli istituti di pena. Se il Ministero deve organizzare visite centralizzate alle varie strutture, ogni singola direzione dovrebbe visitare i reparti del carcere che dirige. Dovrebbe calpestarli, girarli, conoscerli a menadito. Quando noi, con il nostro Osservatorio sulle condizioni di detenzione, andiamo in visita agli istituti, capiamo subito dove ciò accade e dove no.

Ci sono direttori che, nell’accompagnarci durante la visita, conoscono ogni stanza e ogni scala dei reparti detentivi, chiamano per nome le persone da più tempo detenute, conoscono gli agenti di servizio nelle varie sezioni. E ci sono invece direttori che i detenuti non li hanno mai visti in faccia. Li guardano e domandano chi siano, come lo chiedono di noi. Direttori che non conoscono i corridoi dell’istituto che dirigono e hanno bisogno di un educatore o di un poliziotto che faccia loro strada. Direttori che interpretano il proprio lavoro esclusivamente alla scrivania del loro ufficio. Si respira un’aria enormemente diversa nelle une o nelle altre carceri.

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