Filippo Ferlazzo uccide a mani nude in una incontrollata scarica d’ira un mendicante che ha avuto la sfortuna di incrociare il suo cammino. Il caso ha sollevato reazioni opposte nella polis: chi ha da subito fatto appello ad una presunta insanità mentale, chi ha ripreso l’antico e logoro adagio del ‘riaprite i manicomi’, chi invece invoca il gettare la chiave. La storia clinica di questo uomo appare lunga, complessa, tormentata, ed eticamente sarebbe un errore cercare di approfondirla utilizzando dati riportati in modo spiccio dai media. Fior di clinici forensi sono già al lavoro, un lavoro che merita rispetto. Va tuttavia ribadito che quand’anche la perizia psichiatrica deduca e accerti una delle tante patologie che mediaticamente sono state fatte rimbalzare (disturbo bipolare, crisi psicotica) chi di clinica si intende sa che una diagnosi siffatta, anche se severa, non elimina ipso facto la capacità di intendere e di volere.

Questo omicidio accade poco dopo il terribile episodio della signora Pifferi che, dopo aver abbandonato la figlia ritenuta un peso condannandola di fatto alla morte, non mostra davanti al giudice alcun senso di pentimento. Questi episodi aprono alla questione di quelle condotte umane che fanno a meno del senso di colpa e per le quali, dunque, una qualsiasi pena ‘rieducativa’ pare esser inefficace, fornendo la possibilità di approfondire altri scenari, da tempo agli onori delle cronache e sui quali sappiamo di più, il che mi permette di mettere in dubbio la funzione riparatrice della pena detentiva.

I fratelli Bianchi, autori del massacro di Willy Duarte, pare abbiano protestato dopo che il giudice gli ha inflitto la condanna più temuta: ergastolo. Davide Paitoni, colpevole di aver trucidato il figlio, si toglie la vita poco prima di essere giudicato. Ciò che accomuna questi gesti solo apparentemente lontani tra loro è il mancato riconoscimento della legge come elemento regolatore dell’agire civile. Le proteste nel gabbio, il suicido prima del giudizio, così come le manette esibite a testa alta dai brigatisti degli anni di piombo, o il silenzio impassibile col quale alcuni boss mafiosi hanno ingoiato il “fine pena mai“, sottendono un concetto che tradisce l’appartenenza a mondi regolati da codici antitetici a quelli dello Stato in base ai quali vale il “nessuno mi può giudicare”.

Queste vicende mostrano l’esistenza di universi fondati su codici violenti ove la sopraffazione e lo scontro sono i cardini della coesistenza, proprio come il modello Gomorra diffuso con vigore dai media. Per chi nasce in questo humus e ne introietta i principi, la violenza è l’unica legge utile a modulare il rapporto con l’altro, non avendo interiorizzato il senso di colpa o istanze superegoiche che facciano riferimento alle regole del consesso sociale vissute come un corpus di leggi estranee, un impiccio da evitare e sfiorare perché in grado di interrompere la quotidianità dell’agire violento.

In tal senso il carcere, al quale lo Stato affida non solo la privazione della libertà ma anche il compito di recuperare e reinserire del reo in società, non può, per chi è tutt’uno con questi mondi, avere alcun effetto “rieducativo”, correttivo, non può preludere cioè ad alcun “ravvedimento”, quanto piuttosto costituisce un mero strumento di difesa sociale da chi fa della violenza una legge che vorrebbe preponderante e universale.

In un frammento video rubato mentre parlava con un amico prima della sua morte, Totò Riina si lasciava andare ad una confidenza nella quale confessava che avrebbe potuto farsi altri mille anni di carcere. Perché questo esempio? Perché mostra come in alcuni uomini concetti quali “pentimento”, “senso di colpa” e “rimorso” non trovano dimora, non hanno mai attecchito, nella misura in cui per provare rimorso e dunque ammettere uno sbaglio che apra a un rientro nei canoni stabiliti e regolati dalla legge, quest’ultima deve essere presente nell’animo, riconosciuta e accettata. Si scagliano contro la sentenza del processo per Willy Duarte, ma anche altre, i benpensanti moraleggianti che mai hanno conosciuto la perversione della legge e che possono permettersi, da angoli dorati della città, di puntare il dito contro lo Stato sadico che, a loro dire, comminerebbe pene disumane.

Essi sperano seraficamante in un pentimento che per chi abita questi universi non può, strutturalmente, esserci. In un ravvedimento che non potrà mai avvenire. In una colpa che non viene avvertita. Pensate alla strage di Castelfranco Emilia, ove Montefusco uccise moglie e figlia a colpi di fucile: oggetti sfuggiti al suo controllo e pertanto “meritevoli” di essere distrutti. Chi crede che il carcere possa avere un fine “rieducativo“, in questo caso, e chi invece sa che le sbarre servono a proteggere altre donne dal fare la medesima fine? Per molti quando lo Stato commina pene detentive dure lascerebbe cadere una delle sue funzioni principali, quella cioè della rieducazione e reinserimento del reo.

Se ciò vale per la stragrande maggioranza dei casi – e bene fanno quei parlamentari e quelle associazioni che si vanno battendo per tramutare l’inutile pena detentiva in altre forme di espiazione tese al reinserimento di chi vuole riprendere in mano al sua vita – ciò non vale per quei pochi, ma presenti, casi di soggetti “non redimibili”.

Portando all’estremo questo ragionamento vediamo come il famigerato “41 bis“, applicato a capimafia o a protagonisti irriducibili del terrorismo, adempie a questa funzione difensiva rispetto a chi, libero, non avrebbe altro modo di declinare la propria vita se non continuando quella guerra allo Stato e a quelle leggi che ne costituiscono l’ossatura simbolica. Il capo mafia non può “ravvedersi” perché manca della capacità di riconoscere che la lex degli uomini è superiore al codice mafioso. Può sottostarvi, accettarne la forza maggiore, dunque “collaborare” come prigioniero di guerra, ma non vi può aderire. É per questo che non gli si può chiedere un ravvedimento.

Davide Paitoni, uomo con precedenti penali in corso di separazione dalla moglie, uccide il figlio sgozzandolo e chiudendolo in un armadio dopo aver tentato di ammazzare anche lei. Questo uomo, per il quale il rapporto con l’altro si declinava solo in un’ottica di controllo, sopraffazione e dominio, si suicida in carcere dopo che viene rifiutata una richiesta di perizia psichiatrica. Non si pensi nemmeno per un attimo a un tardivo ravvedimento, a un senso di colpa silente che possa aver minato un animo umano che realizza in extremis l’atrocità commessa.

Nulla di tutto ciò: si tratta semplicemente di un modo di eludere, ancora, sino alla fine, quella legge che lo avrebbe giudicato e messo in carcere. Soggetti di questi tipo, al pari di quegli uomini che passano le loro opache vite e controllare, picchiare e uccidere le donne, vivono nella certezza che lo scopo ultimo dell’esistenza sia il disporre delle vite altrui come un docile oggetto del quale disfarsi qualora questo osi mostrare una propria volontà di autonomia. Suicidarsi una volta avuta la certezza di incontrare la legge, sottrarsi al giudizio, significa non riconoscerle alcuno status di superiorità. Eluderla significa, in ultima analisi, ribadire che la sola scelta di vita possibile non contempla l’essere giudicato o incarcerato da nessuno.

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