Nel solco del decennio del Mare dichiarato dall’Unesco, che punta al 2030 come termine per salvare le acque del pianeta, quest’anno lo slogan della Giornata mondiale degli oceani, indetta dalle Nazioni Unite 40 anni fa a Rio de Janeiro, è ‘Rivitalizzazione: un’azione collettiva per l’oceano’. Richiama ciascuno, nel proprio piccolo, a riparare i danni finora fatti. Per raggiungere questo scopo il 93% degli italiani è disposto anche a cambiare le proprie abitudini alimentari. Le scelte si orientano sempre di più verso prodotti con imballaggi con poca plastica e provenienti da pesca sostenibile per l’82%. Nel 2020 era il 74%. È quanto emerge da una ricerca internazionale sui consumatori di pesce condotta in Italia e in altri 22 Paesi da Globescan e promossa da Marine Stewardship Council. Dati che confermano la necessità di coinvolgere i consumatori e la scelta di lanciare proprio oggi la prossima call to action della campagna ‘Carrelli di plastica’ che ilfattoquotidiano.it conduce insieme a Greenpeace. La crisi, però, è globale e sull’azione collettiva sarà incentrata anche la seconda Conferenza delle Nazioni Unite sull’oceano, ospitata a Lisbona dal 27 giugno al 1 luglio dai governi del Kenya e del Portogallo. Secondo i dati dell’Onu, d’altronde, circa 680 milioni di persone vivono nelle zone costiere basse e raggiungeranno circa il miliardo entro il 2050.

Cosa si è disposti a fare per gli oceani – Da qui la necessità di tutelare l’equilibrio dell’oceano che, oltre a essere una fonte di vita, stabilizza il clima e immagazzina carbonio, fungendo da gigantesco pozzo di gas serra. Ma sostiene direttamente anche il benessere umano, attraverso risorse alimentari ed energetiche. Ma cosa si è disposti a fare per salvare gli oceani? Secondo l’indagine condotta da Globescan il 53% crede che i danni causati dall’uomo siano risolvibili entro i prossimi 20 anni, mentre il 47% ha una visione più pessimista. Tra le minacce percepite come più pressanti per gli oceani ci sono l’inquinamento (67%), il cambiamento climatico (46%) e la pesca eccessiva che impoverisce le popolazioni ittiche (38%). Quanto al futuro, il 43% degli italiani si ripropone di comprare più prodotti da pesca sostenibile, contro il 26% di coloro che lo hanno già fatto nei due anni precedenti. Ma la strada intrapresa è molto lunga.

Il profilo fragile dell’Italia – Lo racconta l’ultimo report del Wwf, ‘Dossier Coste, il profilo fragile dell’Italia’ che inaugura l’avvio della Campagna ‘GenerAzioneMare 2022’ e analizza la situazione degli ecosistemi marini e dei paesaggi costieri italiani. I primi si stanno deteriorando a causa di cambiamento climatico, inquinamento da plastica, specie aliene, ancoraggi indiscriminati e pesca eccessiva, mentre il 51% dei paesaggi costieri italiani è degradato dalla presenza di case, alberghi, palazzi, porti e industrie. Le coste italiane (circa 7.500 chilometri) sono la porzione di territorio che, negli ultimi 50 anni, ha subìto le maggiori trasformazioni. Appena 1.860 chilometri (il 23%) di tratti lineari di costa più lunghi di 5 chilometri nel nostro Paese, isole comprese, possono essere considerati con un buon grado di naturalità. Installazioni industriali, espansione urbana e strutture turistiche, deforestazione e rasatura delle dune costiere hanno alterato quasi interamente il profilo del nostro litorale. A questi impatti diretti si è aggiunta l’erosione delle spiagge, fenomeno naturale aggravato dalle attività umane. “In particolare, la manomissione dei fiumi e la demolizione delle dune costiere hanno ridotto e rimosso l’apporto di materiale per la formazione delle spiagge” denuncia il Wwf. Nel periodo 2006-2019 l’erosione ha colpito circa 840 chilometri di costa italiana. Così come il profilo costiero, anche l’ambiente marino in Italia è molto diversificato, con fondali sabbiosi e rocciosi, foreste algali, praterie di posidonia e coralli.

Il ruolo degli ecosistemi costieri e marini – Una eterogeneità ricca di biodiversità. “Dalle dune sabbiose fino ai fondali bassi, queste sono aree chiave per la nostra sopravvivenza e il nostro benessere” spiega il Wwf. Alcuni esempi: la piccola pesca costiera fornisce circa il 16% dello sbarcato totale in Italia e ha un ruolo fondamentale per la sicurezza alimentare delle comunità costiere; nel 2019 i turisti stranieri hanno speso circa 6,6 miliardi di euro nel turismo balneare in Italia; le praterie di Posidonia oceanica attenuano la forza delle onde, mitigano gli impatti delle mareggiate, catturano i sedimenti e, quindi, contrastano l’erosione. Queste ultime, inoltre, sono un deposito fondamentale di carbonio che ha immagazzinato dall’11% al 42% delle emissioni totali di CO2 dei paesi Mediterranei dai tempi della rivoluzione industriale.

Le minacce – Attività illegali di pesca a strascico sotto-costa, ma anche le ancore che arano i fondali e le loro catene stanno provocano la forte regressione della Posidonia nel Mediterraneo. Diverse specie costiere sono spesso sovrasfruttate, per l’azione combinata della pesca professionale e di quella ricreativa. “L’impatto di quest’ultima o è spesso sottovalutato o interamente ignorato” spiega il Wwf, ricordando che in Italia sono oltre mezzo milione i pescatori ricreativi da barca, e oltre 230mila i pescatori sia subacquei, sia da spiagge che da moli. Vanno poi sommati gli effetti della pesca illegale, che viene denunciata dalla maggior parte delle Aree marine protette. Ma il Mediterraneo è anche un hotspot del cambiamento climatico: la temperatura sta aumentando il 20% più velocemente della media globale. Gli effetti del cambiamento climatico, quali l’innalzamento del livello del mare e l’aumento di gravità e frequenza di fenomeni atmosferici estremi, minacciano l’integrità dei sistemi naturali e la sopravvivenza delle comunità costiere. Il ruolo di mitigazione al cambiamento climatico e la resilienza di ecosistemi come dune costiere e praterie di posidonia sono fortemente indeboliti dalla degradazione causata dalle attività dell’uomo.

Il runoff e le altre cause dell’inquinamento da plastica – Oltre al consumo di suolo, alla cementificazione e ad altre attività che mettono a rischio gli ambienti marini costieri, dalla costa arriva una delle principali minacce: il runoff, ossia il deflusso di componenti chimici e di particolato da parte di fiumi e pioggia, dovuto a diverse attività dell’uomo, dalle quelle agricole agli scarichi industriali e urbani. A rischio proprio foreste algali e praterie di posidonia che forniscono un rifugio chiave per molte specie marine. L’aumento eccessivo di sostanze organiche è anche causa dell’eutrofizzazione, processo degenerativo che crea l’ambiente ideale per la crescita incontrollata di alghe, che consumano buona parte dell’ossigeno dissolto a discapito dei pesci. “Il runoff è anche parzialmente responsabile dell’inquinamento da plastica: il 4% della plastica che si disperde in mare, infatti, è trasportato dai fiumi” spiega il Wwf. Parte della restante percentuale di plastica che si accumula sulle coste e in mare (il 78%) “è originata dalle attività che si svolgono sulla costa stessa, primo tra tutti il turismo. Plastica e microplastiche rappresentano un rischio per gli animali. Su 560 individui di tartaruga comune del Mediterraneo centrale, un recente studio ha rivelato che l’80% degli animali aveva nello stomaco frammenti e resti di plastica, trovata anche in specie di cui l’uomo si ciba abitualmente.

La tutela che fa acqua – In questo contesto il 33% degli habitat marini italiani di interesse comunitario è in uno stato di conservazione inadeguato e solo il 26% è in uno stato di conservazione “favorevole”. Il 71% degli habitat dunali in Direttiva sono in cattivo stato di conservazione e in regressione. Ad oggi esistono 29 aree marine protette e due parchi sommersi che, insieme ad altre tipologie di aree protette, nel complesso tutelano circa 308mila ettari di mare e circa 700 chilometri di costa. “Sono troppo poche e troppo piccole. Al 2019, considerando aree marine protette e siti Natura 2000 a mare – spiega il Wwf – solo il 4,53% delle acque territoriali era protetto, di cui l’1,67% con un piano di gestione implementato e appena lo 0,01% soggetto a protezione integrale”. Eppure la nuova strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030 sostiene che i Paesi membri dovrebbero proteggere in modo efficace almeno il 30% della superficie terrestre e il 30% del mare entro il 2030.

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