L’intervista di Umberto Galimberti in occasione dei suoi 80 anni, pubblicata giorni fa su La Stampa, colpisce per esegesi della realtà e visione del futuro. Lo psicanalista vede che le persone soffrono e, quando le ascolta, dicono tutte la stessa cosa: si percepiscono come “funzionari di apparato”. In pratica, tutti noi capiamo di non essere responsabili per ciò che facciamo, ma tenuti a osservare perfettamente gli oneri imposti dall’apparato. Una responsabilità esclusivamente verticale.

La società ci guarda sotto l’esclusivo profilo della utilità: “Veniamo continuamente sondati da algoritmi che non ci dicono chi siamo, ma a cosa serviamo”. E, poiché accettiamo di guardare gli altri e noi stessi solo sotto questo profilo, perdiamo l’essenza della vita. Così l’uomo scompare, afferma Galimberti. Non solo, aggiungo: le strade dell’avanzamento tecnologico si biforcano da quelle del sapere scientifico, la crescita dallo sviluppo, il benessere materiale dalla felicità.

Queste considerazioni confermano le intuizioni sul mondo del sapere, dell’educazione e della ricerca che ho cercato di esporre nel volumetto Morte e Resurrezione delle Università, versione italiana di The Decline and Renaissance of Universities: Moving from the Big Brother University to the Slow University (Springer, 2019). L’università utilitaristica – quella, del tutto verticale, che avevo battezzato “Università del Grande Fratello” con scarsa fantasia – è stata messa in profonda crisi dalla pandemia. E soffre anche l’impatto della guerra mondiale strisciante che sta triturando le rovine pandemiche.

In Occidente, il mondo accademico avverte le ferite, ma cerca di sanarle usando le stesse armi e perseguendo gli stessi obiettivi che hanno contribuito a produrle. È ormai evidente l’ansia di restaurare il modello utilitaristico costruito negli ultimi trent’anni, assai ammaccato. Dove i “clienti” – ossessionati da crediti e debiti – vanno “formati” in un ambiente “competitivo”, governato da una gerarchia di tipo “aziendale”.

Per contro, l’università normativa, rovesciata dal modello utilitaristico, mirava alla educazione e non alla formazione, si fondava sulla condivisione e non sulla competizione, era una democrazia e non un sistema gerarchico aziendale, promuoveva la maturità e non agitava il bilancino debitorio e creditorio, puntava al sapere e non al prodotto. E gli studenti erano allievi, non clienti. Questo modello ha promosso un progresso enorme negli ultimi due secoli, prima di essere soppiantato dall’utilitarismo.

Come afferma Galimberti, “è tipico dell’occidente pensare che il futuro sia per forza bene e il passato sia per forza male, solo una illusione”. Anche la scienza, mossa dalla necessità dell’innovazione indirizzata dal mercato, dovrebbe riflettere. E riscoprire la curiosità, la condivisione del sapere, il valore della serendipity. La Slow Science e la Slow University non sono degli slogan tardo sessantottardi, ma indicano la strada ripida e tortuosa da salire con pazienza e perseveranza per confermare ciò in cui il cattolicesimo, il marxismo e la moderna scienza hanno sempre creduto. L’assioma che, andando avanti, l’uomo non potrà che progredire.

Lunedì prossimo, 30 maggio, a Bari, si discuterà di prospettive per la Università Italiana nel XXI Secolo”. Sono provisti interventi di alto profilo culturale e istituzionale, nel corso di un evento accessibile via web: convegno in modalità mista, in presenza o su MS TEAM, organizzato da TIS-Apulia.

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