“Ho scritto questo libro perché come a me è stato concesso, dai famigliari, di chiamare con il solo nome di battesimo Paolo Borsellino, vorrei che tanti altri ragazzi diventassero suoi amici attraverso la lettura di queste pagine”. A parlare è Alex Corlazzoli, collaboratore de il Fatto quotidiano, maestro e autore di “Paolo sono” (Giunti), il taccuino immaginario del magistrato ammazzato dalla mafia esattamente trent’anni fa.

In questo testo, lo scrittore scompare, per lasciar parlare in prima persona il protagonista: Paolo Borsellino. I bambini e i ragazzi che prendono in mano queste pagine si ritrovano una sorta di diario scritto dal giudice, arricchito da disegni di uno dei più importanti illustratori italiani, Giacomo Agnello Modica, che è riuscito ad accompagnare i lettori in un viaggio siciliano.

“Paolo sono” è un taccuino che permette di conoscere da vicino Borsellino: dagli anni in cui è bambino e come tutti i ragazzi teme la pagella; gioca a pallone; combina qualche marachella all’innamoramento di Agnese che diverrà sua moglie al periodo in cui inizia a lavorare come magistrato. I capitoli si susseguono uno dopo l’altro creando una sorta di film letterario in cui l’esistenza di Borsellino si intreccia con le vite di altri uomini che sono stati ammazzati da “Cosa Nostra”: il capitano Emanuele Basile; il suo capo Rocco Chinnici; il giudice Rosario Livatino fino all’amico fraterno Giovanni Falcone che viene ucciso il 23 maggio 1992. Attraverso la storia di Borsellino si incontra la cronaca di quegli anni che non possono essere scordati. Il taccuino non manca di riportare episodi curiosi. E’ il 27 giugno del 1952 quando a dodici anni, Paolo, una mattina se ne va da casa senza dire nulla: “Ho deciso di fare una fuga a Belmonte Mezzagno, il paese dove è nata la mia mamma, per recuperare i dati dei miei antenati e poter disegnare tutto l’albero genealogico della mia famiglia….”.

E ancora il furto eseguito nella farmacia del padre, Diego, per racimolare qualche soldo per poter acquistare una bicicletta usata oppure quella volta che lui e il fratello Salvatore, dopo una partita persa a calciobalilla sono costretti a darsela a gambe perché non hanno neanche un centesimo in tasca per pagare la scommessa agli avversari.

Ne esce l’immagine di un Borsellino, totalmente lontano dall’eroe ma bambino come tuti noi e poi uomo, deciso ad andare fino in fondo nelle sue scelte ma anche capace di piangere, di rattristarsi. Sono eloquenti le parole che descrivono l’animo del magistrato quando scrive sul taccuino quello che pensa dopo essere stato improvvisamente deportato all’isola dell’Asinara per essere protetto: “Forse è davvero il posto più sicuro per me, ma non so se riuscirò ad abituarmi a questa nuova vita e soprattutto non riesce a prenderla bene mia figlia Lucia”. Il libro si conclude con un capitolo dedicato alla strage di Capaci e l’immagine dell’illustratore che disegna Borsellino che cammina solo davanti al teatro “Massimo” di Palermo.

Corlazzoli dedica le ultime pagine in appendice a raccontare (stavolta in terza persona) gli ultimi giorni del magistrato: “Son tutti episodi – spiega l’autore – che partono dalla realtà grazie alla conoscenza profonda che ho di Borsellino. Dal 1995 fino al 2018, la sorella Rita mi ha raccontato di suo fratello decine di volte. Una narrazione che si è arricchita di quanto mi hanno detto anche Nino Caponnetto; Salvatore Borsellino; Vittorio Teresi; Antonio Ingroia; Franca Imbergamo; Giovanni Paparcuri, ma soprattutto i figli Manfredi e Fiammetta. Non è un caso che ho voluto dedicare il libro ai nipoti di Borsellino”.

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