Cinema

Flee, il documentario animato sulla storia di un rifugiato omosessuale afgano candidato in tre categorie agli Oscar 2022

L'opera del danese Jonas Poher Rasmussen, che è presente sia nella cinquina come miglior documentario sia in quella di miglior film d’animazione e pure in quella di miglior film straniero, è un sofisticato rebus animato multistrato percettivo a sfondo politico

di Davide Turrini

Ma davvero un documentario può abilmente non svelare tutta la verità del tema che racconta e mette in scena? L’abbiamo presa larga e adesso siete già alla ricerca del voto del film o della direzione che prende il pollice sui siti di cinema un po’ più sbrigativi (anticipiamo: 7+ e pollice verso l’alto). Flee, del danese Jonas Poher Rasmussen, in gara per gli Oscar 2022 sia nella cinquina come miglior documentario sia in quella di miglior film d’animazione e pure in quella di miglior film straniero, è un sofisticato rebus animato multistrato percettivo a sfondo politico.

Per raccontare la storia vera di un rifugiato afgano omosessuale nel Nord Europa a cavallo degli anni novanta e primi duemila, storia camuffata però nei nomi e nelle sembianze fisico-somatiche del protagonista, il regista, nonché sceneggiatore, Rasmussen utilizza una forma ibrida di animazione che affascina, respinge e attrae come forse solo all’epoca riuscì nello shock Valzer con Bashir. Chiariamoci. Flee è una lunga seduta introspettiva personale e psicanalitica di Amin, ragazzino in fuga per anni dall’Afghanistan poi da Mosca verso l’Occidente, oggi 40enne in giro per il mondo a tenere conferenze accademiche: sdraiarsi sul sofà, chiudere gli occhi, tornare con la mente, ripetendo a voce non proprio alta ma decisa i ricordi e le sensazioni provate nel proprio complesso e doloroso passato.

A buttarla giù in soldoni: Amin vive l’infanzia a Kabul e assieme alla sua famiglia (madre, padre e fratelli) viene travolto dall’arrembante invasione talebana per la quale gli Stati Uniti si spesero con armi e vettovaglie fino a quando i medesimi diventarono i nemici dell’umanità post 11 settembre 2001. Amin, un fratello più grande e la madre (nel frattempo il padre è scomparso nelle patrie galere e mai più riemergerà vivo), trovano il modo di scappare in aereo a Mosca, ma sfortuna vuole che siano i primi anni novanta e che anche lì sia appena venuto giù tutto con il crollo del Muro di Berlino e dell’URSS. Per sopravvivere con visti scaduti bisogna corrompere la polizia, rimanere chiusi in silenzio in un appartamento freddo e sinistro tra palazzoni scrostati oppure tentare la fortuna migrando clandestinamente verso la Scandinavia.

Ogni tappa della vita di Amin è un trauma preciso, lancinante, ultimativo. A ciò il ragazzino deve anche aggiungere una più profonda e regolare vergogna: quell’omosessualità che tra Afghanistan e Russia è faticoso mostrare in pubblico senza essere emarginato o addirittura fatto fuori. Come abbiamo accennato nelle prime righe per raccontare questa storia Rasmussen, che è anche confessore e vero amico nella vita del protagonista, utilizza due differenti tecniche d’animazione per differenziare i ricordi evocati da Amin: la prima in 2D a colori, più convenzionale per i momenti meno drammatici dell’esistenza vissuta; l’altra più astratta, in un bianco nero grigio, con sagome riprodotte per chiazze e chiaroscuri come per portare alla luce una sorta di terribile rimosso. Un passato che si intreccia, orientandolo e rimodulandolo di continuo, con il tempo presente (anch’esso in un 2D che ricorda il rotoscopio alla Scanner Darkly) dell’autoanalisi e della ricerca, non solo simbolica, di una nuova abitazione dove vivere con il proprio compagno negli anni a venire da rintracciare là dove campagna, pianura e mare del Nord si incontrano fino a fondersi.

L’aggiunta poi di una frequente, vicinissima, tremolante e sincera voce del protagonista, che spesso attraversa come una lama i piani convenzionali del racconto, porta Flee sul terreno del documentario civile (il sangue dei morti in Afghanistan sono traumaticamente veri in 4:3 tratti da filmati e tg dell’epoca) dove la realtà presunta è affascinante frutto del filtro della memoria. Ed è su questo crinale che la forma dell’animazione, in fondo, quasi sembra come frapporsi e disorientare il desiderio di documentare, permettendo abilmente e sinuosamente di svelare alcuni dettagli, posponendone altri, accarezzandone altri ancora per poi di nuovo accostarli di lato. Altro titolo maiuscolo con cui se la dovrà vedere agli Oscar È stata la mano di Dio di Sorrentino. Sequenze animate a cura del Sun Creature Studio di Copenaghen.

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