L’8 marzo è sempre l’occasione per fare bilanci sulla condizione delle donne e sulle disparità che persistono a dispetto di qualunque speranza e fiducia nel futuro. Si procede a piccoli passi. La povertà è donna ma quando l’assenza di reddito, il precariato e salari bassi riguardano donne che vivono relazioni con violenti, le difficoltà di mantenere i figli o di pagare l’affitto sono gli ostacoli più insidiosi per chiudere le relazioni.

Da anni, i tempi di permanenza delle donne nella Case rifugio sono andati via via dilatandosi. Negli anni ’90 l’ospitalità nelle Case durava tre o al massimo sei mesi; oggi, senza un lavoro, i tempi si dilatano e possono arrivare fino a due anni di ospitalità. Se ci sono figli, la ricerca del lavoro diventa più complicata perché la conciliazione della cura con gli orari di lavoro pesa sulle spalle delle donne.

La crisi dell’occupazione e il progressivo annientamento del diritto del lavoro non lascia prospettive rosee e l’assegno di mantenimento dell’ex molto spesso non è sufficiente a garantire la sopravvivenza e raramente viene versato. Le donne rinunciano ad azioni legali per ottenerlo perché esitano ad aprire contenziosi con ex violenti.

Quando il futuro è ipotecato dall’angoscia e dall’incertezza è difficile separarsi da un uomo violento, se si vive grazie al suo reddito. La fuga dalla violenza non dovrebbe mai essere un salto nel buio o una corsa ad ostacoli, ma può diventarlo. I centri antiviolenza hanno messo in campo molti progetti per sostenere l’inserimento o il reinserimento lavorativo delle donne: stage, corsi di formazione, consulenze per la ricerca del lavoro. Banche o cooperative hanno siglato protocolli con i Centri antiviolenza e finanziato corsi di formazione per le donne, e ci sono aziende che offrono tirocini alle donne accolte nei centri antiviolenza.

A Milano, Viviana Varese, chef stellata, ha avuto l’idea di offrire lavoro a donne che uscivano da situazioni di violenza e ha contattato la Casa delle donne maltrattate di Milano realizzando l’apertura di una pasticceria con personale tutto femminile, nel Mercato Comunale Isola, mentre una seconda pasticceria dovrebbe aprire in via Kramer sempre a Milano.

Un progetto interessante, soprattutto in un presente compromesso dalla crisi economica aggravata dalla pandemia (per non parlare delle ricadute che ci saranno per la guerra in Ucraina), che potrebbe essere replicata come quei progetti che, grazie a finanziamenti pubblici o privati, hanno permesso l’apertura di piccole imprese o cooperative nel settore del catering o della sartoria con la partecipazione di donne che erano state accolte nei Centri antiviolenza. L’obiettivo è stato raggiunto con la valorizzazione delle competenze di donne che non avevano titoli di studio o professionalità spendibili nel mondo del lavoro.

Accade spesso che le donne che chiedono aiuto ai centri antiviolenza siano senza occupazione. Gli autori di violenza mettono in atto molte strategie per isolare la partner e la inducono a lasciare il lavoro con colpevolizzazioni, minacce o manipolazioni. L’Istat ha rilevato come la violenza familiare colpisca con maggiore frequenza le donne senza occupazione che sono in una condizione di subalternità e dipendenza, maggiormente ricattabili dal partner che assume dunque il ruolo di chi commette violenza ma che nello stesso tempo garantisce la sopravvivenza della famiglia.

Il Covid-19 e i lunghi mesi di lockdown hanno peggiorato la situazione. Le misure per la prevenzione del Covid hanno pesato sulle donne, sia per le conseguenze economiche e occupazionali che per le ricadute sull’aumento di violenze. In un rapporto del Center for Global Development è stato messo in evidenza il nesso tra le crisi economiche, lo stress e la violenza familiare: sono le donne che pagano il prezzo più alto in termini di povertà e di violenza. Il contrasto alla violenza familiare e il sostegno alle vittime passa anche dalla creazione di posti di lavoro e dall’autonomia economica delle donne.

@nadiesdaa

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