di Barbara Martini (fonte: lavoce.info)

A parità di istruzione, il tasso di inattività delle donne è superiore a quello degli uomini in quasi tutte le fasce di età. Per valorizzare questo potenziale occorre affrontare nel loro insieme gli aspetti economici e socio-culturali della questione.

Le “scelte” delle donne

Gli economisti e le economiste focalizzano l’attenzione dei loro studi per lo più sui dati riguardanti l’occupazione e la disoccupazione. Per quanto importante, la focalizzazione trascura un indicatore: il tasso di inattività. Le determinanti del tasso di inattività racchiudono tutte le problematiche economiche, sociali, culturali, di care giving che caratterizzano le scelte lavorative delle donne. I dati evidenziano che il tasso di inattività per le donne, in tutte le classi di età a eccezione di quella 55-64, è nettamente superiore a quello degli uomini a parità di istruzione. Le donne “scelgono” di non lavorare in percentuale superiore agli uomini. Nel 2020 la percentuale di donne inattive in possesso di licenza di scuola media è stata superiore al 50 per cento per le fasce di età 25-44 anni contro il 18 per cento degli uomini. Un dato che fa particolarmente riflettere è quello relativo alla classe di età 35-44 anni in possesso di laurea o post-laurea: il tasso di inattività nel 2020 è del 3,91 per cento per gli uomini e del 14,9 per cento per le donne.

Le indagini sulla forza lavoro dell’Istat esplorano i motivi della inattività. Il 17 per cento del totale degli inattivi per la classe 15-64 anni dichiara di esserlo per motivi familiari; il 95 per cento di queste persone sono donne. Il carico familiare, la gestione della casa, dei figli, dei genitori anziani e bisognosi di cure rappresenta un onere esclusivo delle donne, rendendo per loro più elevato il costo opportunità di lavorare. Le analisi multiscopo lo confermano. Analizzando la posizione lavorativa delle coppie con almeno un figlio emerge che, se l’età della donna è tra i 25-34 anni, la percentuale delle coppie in cui un solo partner è occupato è pari al 50 per cento e si tratta di un uomo con impiego full time nel 93 per cento dei casi. Le coppie in cui ambedue i partner sono occupati sono il 40 per cento, ma la metà è costituita da donne con una posizione lavorativa part-time.

Il divario inizia a scuola

I dati precedenti evidenziano la complessità del fenomeno che include componenti politiche, sociali, economiche, culturali nonché la scelta dei percorsi di studio e l’assenza di strutture di welfare che sostengano le donne in termini di carico familiare. Le donne sono per lo più occupate nel settore dei servizi, e in particolare nel commercio al dettaglio, alloggio e ristorazione, sanità e istruzione. La segregazione di genere è la conseguenza di scelte culturali anche in termini di percorsi formativi. Le donne hanno risultati migliori degli uomini, sin dalle scuole elementari, nelle discipline umanistiche, mentre performano meno bene in matematica (in accordo con i risultati delle indagini Pisa e Invalsi).

Le origini del divario sono complesse e multi-dimensionali e richiederebbero un ripensamento del sistema scolastico, che dovrebbe essere volto a rafforzare le competenze femminili in alcune aree con progetti e programmi specifici (ne è un ottimo esempio il progetto NERD? Non è Roba per Donne? promosso da Ibm). La dimensione culturale gioca, in questo contesto, un ruolo non trascurabile. I testi scolastici in cui la mamma cuce e il papà lavora sono ancora adottati nelle scuole mentre i modelli di ruolo proposti alle bambine non consentono loro di immedesimarsi con le scienziate creando, sin dalle elementari, il così detto gender dream gap. Ne consegue che una grande percentuale di ragazze sceglie percorsi formativi socio-economici al posto di percorsi Stem, con conseguenze in termini occupazionali e retributivi.

Il divario diventa ancora più preoccupante con l’adozione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che destina la maggior parte dei fondi alla transizione ecologica e digitale. Poiché il divario di genere inizia sin dalle scuole elementari, per non acuire ulteriormente il divario, è necessario un ripensamento sul modo con cui alcune discipline vengono insegnate. La scelta dei percorsi formativi, spesso dettata non solo dalle inclinazioni personali ma anche da motivazioni socio-culturali, porta le donne a essere segregate in settori meno resilienti e meno retribuiti. Come conseguenza sono più inclini a rinunciare al lavoro, con ricadute non solo economiche ma anche sociali.

Servono interventi coordinati

I dati evidenziano che la scelta della maternità rappresenta un onere che ricade esclusivamente sulla donna. La legge sul congedo parentale va nella giusta direzione, ma occorre un cambio culturale importante che al concetto di maternità sostituisca quello di genitorialità, dove la genitorialità è un onere condiviso. Occorre un potenziamento di tutte le strutture, a partire dagli asili nido, ancora molto carenti su tutto il territorio nazionale, nonché scuole primarie che offrano l’opportunità di scegliere il tempo pieno. Occorre un ripensamento della cultura aziendale a partire dagli orari e dalle modalità di lavoro, volti a favorire la conciliazione famiglia-lavoro. Occorre favorire la presenza di donne in ruoli manageriali (allo stato attuale sono solo il 27 per cento del totale) riducendo il pay-gap.

In questa direzione l’introduzione di una certificazione di genere ottenuta attraverso l’utilizzo di indicatori prestazionali (Kpi) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni potrebbe rappresentare un ottimo incentivo per il raggiungimento dell’obiettivo, così come lo è stata la legge Golfo Mosca del 2011, che ha fatto passare la quota di donne nei consigli di amministrazione dal sette per cento all’attuale 40 per cento. Da parte della politica occorre una azione che porti all’adozione di una valutazione dei progetti di investimento in termini di genere (Gender Impact Assessment) che valuti non solo i benefici e i costi di un progetto, ma anche i suoi impatti in termini di genere.

In conclusione, il problema delle donne e del mercato del lavoro non è solo un problema occupazionale. Non basta contare quante donne e quanti uomini sono occupati, e anche in questo caso le rilevazioni statistiche sono ancora carenti, ma occorre esplorare le dimensioni sociali, economiche e culturali che sono alla base del fenomeno. Una maggiore inclusione delle donne rappresenta una ricchezza e un valore che ricade sull’intera collettività. Per valorizzare questo potenziale occorre uno sforzo sinergico, che coinvolga tutte le dimensioni del problema, dalle politiche agli aspetti socio-culturali. L’assenza di sinergia rischia di ridurre l’efficacia degli interventi.

Articolo Precedente

8 marzo, mancano 135 anni alla parità di genere. Non possiamo stare fermi!

next