Cultura

Prima della Scala, il foyer anti-Covid si svuota di politici e vip. Il testimonial diventa Burioni. Ecco com’è andata giù dal palco

Le misure anti-contagio trasformano il salone del Piermarini. Ci sono tutti i soliti ingredienti, ma in scala: imprenditori e giornalisti, personaggi della tv e di non si sa cosa. E il Macbeth pare dare istruzioni sull'elezione al Quirinale

di Diego Pretini

Un tempo, lo sanno tutti, il foyer della Prima era un porto di mare. Alla prima Prima dopo le pene del virus l’impressione è di esserci proprio dentro, un porto, col salone d’ingresso del Piermarini trasformato nel centro della rosa dei venti: le tre porte principali spalancate, una specie di triade di gole sputagelo a beneficio dell’areazione salubre anti-Covid e un po’ meno dell’ostensione degli abiti di chi è tutto l’anno che pensa a cosa mettersi. Qualche ardimentosa molla il cappotto e resiste alle temperature da vigilia di tempesta di neve e non sempre è una buona notizia (lo scappottamento delle intrepide, non la nevicata). Le procedure anti-contagio della Scala sono una cosa serissima, militare: green pass da vaccinati, a volte controllati pure due volte, niente stazionamenti, niente albero di Natale, niente Valeria Marini, circolare circolare non c’è niente da vedere, che per il foyer della Prima della Scala è un bel controsenso perché c’è chi viene proprio per quello: vedere e farsi vedere.

Ma effettivamente da vedere c’è poco o comunque: grazie alla pandemia non solo la natura, ma anche la lirica ha ripreso i suoi spazi. Ci sono tutti i soliti ingredienti, ma in scala: imprenditori e giornalisti, personaggi della tv e di non si sa cosa. Il segno dei tempi è che il testimonial della Prima 2021 alla fine diventa il virologo Roberto Burioni che – da melomane nato in terra di Rossini ma esordiente alla Prima di Milano – arriva prima ancora che aprano le porte del teatro. Subito dopo lo segue Cesare Cremonini (che è venuto con la mamma) il quale per un’incollatura anticipa la presidente degli Amici della lirica e madrina dei City Angels Daniela Javarone, accompagnata dal “paladino del buon gusto” Enzo Miccio e da Raffaele Tonon (ex concorrente del Grande Fratello, opinionista della tv pomeridiana, “ma è quello che vende i materassi?” aggiunge uno nella non-folla del foyer chiedendo conferma all’amico).

Il foyer anti-Covid prevede spazi molto più ampi, cioè non si è costretti a rispondere con un’ancata alle gomitate dei passanti e non si rischia di fare jogging su code di tulle di 8 mq, ma l’assetto non cambia. Per dire: prima entra la senatrice a vita Liliana Segre e poco dopo la chirurga plastica Dvora Ancona che col rossetto si è scritta il suo nome di battesimo un po’ sopra il seno ma dice che vuol dire “Donne volontarie operative richiesta d’aiuto”; passa la pasionaria dei diritti civili Cathy La Torre e subito dopo il gotha delle associazioni di categoria, i Carlos, Sangalli di Confcommercio e Bonomi di Confindustria. Entra l’architetta Gigliola Gagnoni e si mette in posa Alessandro Cattelan. Non marca mai visita l’imprenditore già casaleggiano Arturo Artom e spunta Manuel Agnelli che cerca del dark in questo massacro scozzese. L’unica che anima un po’ il salone delle feste è Antonia Dell’Atte che ha una posa per tutti gli obiettivi. Roberto D’Agostino con una cravatta violacea (eresia!) con un crocione sopra (eresia!) non ha voglia di parlare con nessuno che abbia il microfono. Melania Rizzoli, assessora regionale, ha due mascherine: una per l’utile e una per la bellezza, con tutti i brillocchi sopra. Ornella Vanoni doveva esserci ma si è fatta male per accarezzare un cane e quindi è venuta cor coso, come se chiama. Giorgio Armani si sistema il farfallino davanti alle telecamere, come se avesse bisogno di essere ancora più elegante di così. Direttori di giornali, attuali o ex, almeno tre: Ferruccio De Bortoli, Maurizio Molinari, Fabio Tamburini. C’è troppo spazio in questo foyer anche perché Beppe Menegatti arriva da solo, senza Carla Fracci: si prende tanti abbracci.

Sarebbe anche la Prima del governone, la Prima di Draghi. E invece ci sono solo ministri del Pd, Dario Franceschini (che ormai contende il record di Prime al direttore musicale Riccardo Chailly) e Patrizio Bianchi. Non c’è traccia di Palazzo Chigi anche se in platea si vede l’economista (e consulente del premier) Francesco Giavazzi mentre discute con trasporto con l’architetto Stefano Boeri.

Le mascherine – che Dio le abbia in gloria – nella penombra dei corridoi del Piermarini fanno sempre un po’ truppe di Squid Game che si sono messe in lungo. Non ci sono i biscotti di zucchero a forma di ombrello e nemmeno il panettone al ridotto Toscanini, perché durante questi fantastici due anni quasi senza teatro – e con in mezzo una Prima dal sofà in pigiamone di pile – hanno fatto capire ai frequentatori del Piermarini che negli anni passati hanno rischiato la vita più del giovane Castellitto a Roma Nord quando – pazzi! – ghermivano le fette del dolce ultrameneghino tutti dallo stesso vassoio e tutti con le mani che avevano mantrugiato maniglie di porte, biglietti, sportelli di taxi, libretti di sala, banconi di buvette e mani altrui ed è bene fermarsi qui in ossequio a un minimo di buona creanza. Tutto questo però non frena l’assalto alla diligenza all’intervallo con code alla cassa dei bar che solo a Roncobilaccio.

Il cuore del teatro diventa piccolo così quando capisce che è l’ultima volta che può celebrare il rito tradizionale della sera del 7 dicembre, cioè l’applauso in piedi a Mattarella, diventato festa rossa. Protocollo consueto: lui si alza e eleva una mano a mò di saluto che nelle sue intenzioni dovrebbe essere sufficiente, e poi però ci sono i palchetti di destra che gridano e allora lui si volta e saluta anche loro, e anche quelli là sopra che magari se la prendono, e poi dice Ok, grazie, può bastare, accomodatevi, bisogna cominciare, e la gente che insiste, e lui Sì, vi ringrazio ma così non si può andare avanti, davvero, e quelli che non mollano e il presidente che forse, chissà, si sente tanto come Fantozzi con la suora attaccata alla gamba e poi si sa che fine fa la religiosa sì misericordiosa ma molesta. Non stupirebbe vedere qualcuno che si abbatte a terra in preghiera, inorridito al solo pensiero di chi potrebbe sedere su quella sedia del palco reale il prossimo anno.

Per non saper né leggere né scrivere, lì a fianco, la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che prima del passo istituzionale sui tappeti rossi era cintura nera di marcia sui Palazzi di giustizia, prende appunti: sul palco Macbeth – tra spiritelli, streghette e una caterva alta così di morti ammazzati – ricorda l’aria frizzantina che da qui a un mese avvolgerà l’Aula di Montecitorio con dentro il Parlamento in seduta comune. Alla Camera i morti ammazzati potrebbero essere un modo un po’ spiccio per tradurre il vecchio immortale motto che chi entra papa, esce cardinale, ma l’esercito nascosto dietro i rami della foresta ricorda molto da vicino quella cosa dei 101. Per completare la metafora mancherebbe solo il convitato di pietra, il presidente del Consiglio che sarebbe perfetto anche per fare quello della Repubblica ma poi a Palazzo Chigi chi ci mettiamo. Ma quella è un’altra storia e soprattutto un altro compositore.

Macbeth: la storia di moglie e marito che pur di diventare sovrani ammazzano nell’ordine il re, un collega di lavoro di Macbeth – un altro generale – e i parenti stretti di un terzo amico loro che di lavoro non fa niente perché fa il nobile. Finisce, come noto, che alla fine muoiono entrambi, Macbeth e la sua lady. Non stupirebbe scoprire che l’hanno programmato apposta per l’ultima Prima del presidente: questa cosa dell’uso consapevole, temporaneo e avveduto del potere è stato il basso continuo del settennato, anche se è stato un tema relegato – come spesso accade ai giornali – allo spaventevole termine del “siparietto”. Parlando con una scuola superiore, tre anni fa, disse che il potere rischia di inebriare e gli antidoti per un politico sono l’autodisciplina, il senso del limite e anche l’autoironia. L’ha ridetto una decina di giorni fa, ricordando che dal Quirinale se ne vuole andare.

Ma se davvero questo si impara nel finale di Macbeth, Bonomi dovrà recuperarlo o farselo raccontare: fugge una ventina di minuti prima del sipario, proprio mentre Netrebko-Lady Macbeth dà di matto nel sonno e sta per finire la sua struggente aria da sonnambula, una delle più attese dell’opera. Il presidente di Confindustria si ingobbisce per non disturbare gli spettatori in platea ma non riesce ad evitare che si spazientiscano un po’ di spettatori compresi nella parte. Bonomi si perde anche i buh per la regia con gli effetti speciali: per una fetta non irrilevante di appassionati la storia di Macbeth resta la storia di Macbeth solo se è vestito col mantello e va a cavallo, se prende l’ascensore non vale più. Quello che è certo è che però il bis lo chiedono solo a Mattarella. Un orchestrale, che di lavori di responsabilità se ne intende, avvicina il presidente e gli dice: fa proprio bene a non concederlo. E lui come ha risposto? “Ha ridacchiato”.

In una prima versione di questo articolo era stato indicato per errore tra i presenti Giulio Artom. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

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