Si fa presto a dire Polexit, dopo come è andata a finire la Brexit, che pareva un’assurdità e che invece s’è fatta. “La Polonia apre di fatto la procedura di uscita dall’Unione europea”: è la lettura che molti danno di una sentenza della Corte costituzionale di Varsavia, secondo la quale alcune norme Ue non sono compatibili con la Costituzione del Paese. Il verdetto dei giudici supremi polacchi viola un principio fondamentale dell’Unione europea, cioè che la normativa comune prevale su quelle nazionali – che si devono adeguare (e non viceversa).

In realtà, quella lettura non è corretta: la Polonia, come l’Ungheria e, in misura minore, altri Paesi del Gruppo di Visegrad o vicini ad essi stanno ‘tirando la corda’ delle relazioni con l’Ue, sullo stato di diritto, la libertà d’espressione, l’accoglienza dei migranti, ma non vogliono assolutamente romperla perché i fondi strutturali europei sono essenziali al loro sviluppo economico – e ancor più lo saranno al tempo del Next Generation EU – e non hanno nessuna intenzione di rinunciarvi.

Piuttosto, le loro provocazioni, che rispondono a istanze di partiti al potere e di opinioni pubbliche volatili sul fronte europeo, scommettono sulle carenze degli strumenti di auto-tutela dell’Ue, che non ha una gamma di sanzioni adeguata da applicare a chi, una volta entrato, non sta al gioco e costringe i partner a una sorta di continuo ri-negoziato: è la storia della Gran Bretagna, ma anche della Danimarca, nel processo di integrazione.

Inoltre, Varsavia e Budapest giocano sulla fragilità della coesione politica fra i 27 perché vi sono, in ogni Paese, forze sovraniste e populiste che simpatizzano con le istanze ‘euro-scettiche’ polacche e ungheresi. Certo, sono in genere forze di opposizione e minoritarie, con qualche eccezione, fra cui quella dell’Italia: sul carro di Tespi del governo Draghi, sono anche saliti – e sono stati accolti – attori che recitano una doppia parte, europeisti – tiepidi e ipocriti – nel Consiglio dei ministri, sovranisti e anti-Ue fuori, in Parlamento e nelle piazze.

Vicende come quella della Corte costituzionale polacca e, ancor più, i contrasti sui migranti, appena riesplosi, fanno emergere la nostalgia di un’Unione più piccola, ma più coesa. Una dozzina di Paesi hanno ieri chiesto, prima di una riunione dei ministri dell’Interno dei 27, nuovi ‘vecchi’ strumenti per proteggere le frontiere esterne dell’Ue dai flussi migratori, giungendo persino a ipotizzare finanziamenti europei di recinzioni e muri: chiedono, cioè, alle Istituzioni comuni quello che neppure Donald Trump è mai riuscito a ottenere dal Congresso Usa, nonostante ne controllasse sia il Senato che la Camera, cioè i soldi per il Muro al confine con il Messico (che, in quattro anni, non ha tirato su, tranne alcuni segmenti).

La lista dei firmatari della lettera indirizzata alla Commissione europea e alla presidenza di turno slovena del Consiglio dei Ministri dell’Ue – in ordine alfabetico Austria, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria – non comprende neppure uno dei Paesi fondatori: la stragrande maggioranza (9 su 12) sono Paesi entrati nell’Unione dopo il 2004 – mancano Croazia, Malta, Romania e Slovenia -. Gli ‘intrusi’ sono l’Austria e la Danimarca, i cui governi, pure di colori diversi, hanno posizioni anti-migranti rigide, e la Grecia, che, ancor più dell’Italia, vive in prima linea il problema.

Altra notazione interessante: fra i 12 firmatari, solo due sono contribuenti netti dell’Unione europea, l’Austria e la Danimarca; gli altri sono tutti beneficiari netti, cioè hanno un interesse anche finanziario, non solo economico e sociale, a restare nell’Unione.

Nella loro lettera, i 12 Paesi chiedono “nuovi strumenti che permettano di evitare, piuttosto che affrontare in seguito, le gravi conseguenze di sistemi migratori e di asilo sovraccarichi e capacità d’accoglienza esaurite, che alla fine influiscono negativamente sulla fiducia nella capacità di agire con decisione quando necessario… Allo stesso tempo, queste soluzioni europee dovrebbero mirare a salvaguardare il sistema comune di asilo riducendo i ‘pull factors’, i fattori d’attrazione”.

Problemi reali e di cui discutere. C’è però da domandarsi se muri e barriere siano la risposta adeguata o non piuttosto la risposta semplice di cui siano sempre alla ricerca, ma che è spesso sbagliata.

Diversa, invece, la pretesa di Varsavia e di Budapest di ridurre gli spazi dello stato di diritto e pure della libertà d’espressione, magari nel nome dei valori cristiani e della ‘democrazia illiberale’ (che è una contraddizione in termini). Per dirla in parole semplici, i governi polacco e ungherese vogliono i soldi dei partner europei? Allora, rispettino le regole. Altrimenti, i loro partner trovino l’accordo per tagliare loro i fondi. E, a quel punto, vedremo se la Polexit è un incubo o un bluff.

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Giudici legati al governo e sentenza in risposta ai Trattati Ue: perché la decisione della Corte della Polonia non è paragonabile a quella tedesca

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