Se la Scuola italiana, tornata in presenza da lunedì, funziona, non è certo merito solo del ministro dell’Istruzione e di quello dei Trasporti ma è soprattutto grazie a persone che sui quotidiani non finiscono mai, se non quando accade il crollo di un soffitto dell’istituto o l’occupazione di una scuola.

A far partire l’elefantiaca macchina dell’Istruzione sono i maestri (dal nido alla primaria), i professori, i presidi, i collaboratori scolastici e il personale amministrativo che per settimane hanno lavorato affinché i bambini e i ragazzi potessero arrivare a scuola sereni e sicuri. Sto parlando di un esercito di uomini e donne dello Stato che spesso, nemmeno sono d’accordo con le norme emanate per far fronte alla pandemia in classe ma rispettano la legge e provano, tra mille difficoltà, ad applicarla.

L’ho visto con i miei occhi lunedì mattina. Per comprendere cosa sarebbe accaduto al suono della prima campanella, non mi sono accontentato di chiamare al telefono qualche dirigente scolastico, ma ho voluto vedere con i miei occhi. Alle 8,30 ero a Cremona, in via Gerolamo da Cremona, alla sede staccata dell’Istituto “Torriani”. Lì, la dirigente, Roberta Mozzi, un passato nel mondo del volontariato in carcere e non solo, deve “governare” una città: 1700 studenti in totale.

Quando arrivo è giù sul posto attorniata dai suoi primi collaboratori Francesca Mele e Fabio Donati. Nel cortile, davanti a uno degli ingressi da dove entreranno i ragazzi, ci sono altri insegnanti e i collaboratori scolatici pronti a verificare il green pass. La prima notizia me la dà la preside: “La piattaforma del ministero funziona”. Un successo, senza dubbio, di viale Trastevere.

Il team di Roberta Mozzi, mi accompagna a visitare le aule di questo antico palazzo che conserva ancora mobili, scrivanie e quadri dei tempi che furono. Nelle classi i banchi sono distanziati un metro l’uno dall’altro. Così la cattedra (purtroppo c’è ancora) due metri dagli alunni. È così ovunque. Non sono classi pollaio, ma sicuramente hanno numeri non da poco conto: ventisei, ventiquattro. Tra qualche minuto, su quei banchi si siederanno quattordicenni che alla fine del loro percorso, usciranno da quella scuola con competenze in meccanica. Sapranno usare un tornio, fare manutenzione a una macchina e tanto altro: professioni che in pianura Padana sono ricercate come il pane.

Per loro la scuola ha anche una serie di laboratori. E qui nasce il problema: 26 ragazzi non possono stare in un’officina. “Li dobbiamo dividere in tre turni a volte”, spiega l’insegnante. Una soluzione facile a dirsi ma che necessita di alchimie per metterla in atto. Tra un’aula e l’altra spuntano anche le famose sedie a rotelle: “Noi le abbiamo, ma devo dire che non tutte quelle che ci hanno fornito sono stabili”, spiega la preside. La provo anch’io, per la prima volta. Comoda lo è, ma quel tavolino serve a poco: un libro e un quaderno non ci stanno. Forse a Roma non ci hanno pensato o non le hanno provate.

Alle nove suona la campanella. I ragazzi arrivano puntuali anche perché per il primo giorno li hanno accompagnati i genitori: “Vedremo tra qualche settimana – spiega Roberta Mozzi – cosa accadrà”. Aggiunge Donati: “Sui trasporti solo parole ma non una corsa in più”. Torno a guardare questi 14enni dall’aria ancora un pochino assonnata. Hanno tutti o quasi la mascherina chirurgica. Entrano in maniera ordinata. Neanche chiacchierano tra loro (forse non si conoscono). Si mettono in cerchio. Parla l’insegnante. Segue la vice preside e poi lei, il “capo”: “Qui le regole vanno rispettate. Ci teniamo particolarmente”. Inizia il discorso da dura. Anche se fisicamente non c’entra nulla ricorda un po’ Angela Merkel. Poi si lascia andare: “Mi fido di voi”. Un attimo dopo è davanti ai genitori. Gli altri anni, il primo giorno, erano pure loro accolti. Quest’anno l’imposizione del green pass ha limitato le buone maniere. Per evitare la verifica a ciascun papà o mamma, Mozzi, ha preferito rinviare l’incontro. Nessuno se la prende. Anzi. Apprezzano la disponibilità.

Prima di andarmene, la preside, mi offre un caffè nel punto ristoro della scuola. Ci tiene particolarmente a questo luogo e nella sede centrale ha realizzato un bar di grande stile. Lo vado a vedere, accompagnato da un’altra valida collaboratrice della preside, Josita Bassani. Resto a bocca aperta. Un luogo di questo genere l’ho visto solo nelle scuole svizzere o del Nord Europa.

Alla sede centrale da dove usciranno i “cervelloni” della tecnologia e dell’informatica, sono in più di mille. Per muoversi serve una mappa o un buon accompagnatore. Per accogliere i “primini” stamattina si sono realizzati cinque ingressi, ciascuno caratterizzato da un colore: a terra, nei corridoi, ci sono adesivi blu, gialli, rossi bianchi. All’ingresso, i collaboratori scolastici non sbagliano una mossa: tablet per visionare il green pass; firma, numero di telefono registrato. Non si scherza.

Nelle aule non manca il gel disinfettante. Entro in una classe. Sono in 29. Zitti. Attoniti. La professoressa Bassani fornisce loro le regole del gioco: c’è un docente che li può ascoltare se hanno necessità; c’è chi si occupa di bullismo e di cyber bullismo; c’è chi fornisce loro tutti gli strumenti per accedere al registro elettronico. Due soli avvertimenti: “Qui non tolleriamo episodi di violenza”. Il secondo: “Se vogliamo venire a scuola in presenza rispettiamo le regole”.

Giornata perfetta. Il resoconto non può che essere positivo. Nessun problema. Anzi uno c’è: un paio di ragazzi hanno capito male la sede dove andare. Uno è finito nell’antico palazzo quando doveva essere nella scuola moderna e l’altro ha fatto il contrario. Tutto si è risolto grazie al buon senso che va oltre la norma. Meglio non spiegarlo, perché in questo Paese logica non fa rima con ragionevolezza. Un solo dubbio: “Ma questi ragazzi che hanno scambiato sede sono migranti?”.

Basta guardarli, ascoltarli e tutto è chiaro. Parlano a malapena l’italiano. Eccoli: alla primaria sono arrivati e inseriti in classi dove li hanno trascinati fino alla quinta senza una sola risorsa per loro. Alle medie nessuno ha scommesso su di loro e in terza gli hanno detto: fai un professionale. Ora sono arrivati al capolinea. Per fortuna, in questa scuola, c’è una preside credibile per la sua storia e molti professori che credono nei ragazzi. Buona scuola.

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