Se le parole hanno un senso, quelle pronunciato dal vicepresidente della Südtiroler Volkspartei costituiscono un atto d’accusa contro la gestione di soldi pubblici da parte dei governatori italiani, non solo quelli delle Regioni a statuto autonomo, ma anche ordinario. Dopo la condanna definitiva di Luis Durnwalder per peculato, in relazione alla gestione venticinquennale dei fondi personali a sua disposizione in quanto presidente, è sceso in campo Karl Zeller, vice-Obmann della Svp. E’ un politico di lungo corso, visto che per 19 anni è stato membro della Camera (dal 1994 al 2013) e per altri cinque senatore, occupandosi particolarmente di autonomia. Inoltre, è laureato in economia e giurisprudenza, esercitando la professione di avvocato. Zeller ha rilasciato un’intervista a Tageszeitung in cui critica la linea difensiva dell’ex presidente. E aggiunge: “Quello che ha fatto Durnwalder era ed è una prassi corrente non solo in Provincia di Bolzano dove la Corte dei Conti non aveva mai eccepito alcunché, ma anche in altre Regioni e riguarda non solo il Presidente, ma anche gli assessori della sua giunta”. Con una frase lancia una serie di siluri. Alla Corte dei Conti che per lustri non si sarebbe occupata del problema della gestione dei fondi riservati, salvo poi svegliarsi negli ultimi anni. Ma anche contro i colleghi di Durnwalder, in altre parti d’Italia, che utilizzerebbero quei soldi nello stesso modo. Parole generiche, ma siccome Durnwalder è stato condannato sia dalla magistratura ordinaria che da quella contabile, se ne deduce che secondo l’ex parlamentare Svp di lungo corso, l’andazzo è comune a molti, non solo presidenti, ma anche assessori.

Naturalmente l’esponente di Svp difende l’imputato, che si è visto infliggere due anni e 6 mesi di reclusione: “Ha agito in totale buona fede e non poteva certo immaginare che il suo agire avrebbe avuto conseguenze di questo tipo”. Casomai critica il fatto che non abbia ottenuto prima un patteggiamento. Il tema riguarda le spese di rappresentanza, sia in Alto Adige, ma anche altrove (la Cassazione emise nel 2009 una sentenza che riguardava la Sicilia). A quali fondi attingono i presidenti per le spese di rappresentanza? Chiedono un’autorizzazione preventiva? Sono tenuti a lasciare tracce delle spese? “Non potevo mica dire ad un ospite istituzionale che arrivava da Roma: vai a mangiare alla bancarella dei würstel. Sarebbe triste se in una Provincia con un bilancio di sei miliardi di euro non potessi neanche offrire un caffè”, è stata la giustificazione di Durnwalder.

L’esponente Svp ha dichiarato in conferenza stampa, assistito dagli avvocati Gerhard Brandstätter e Domenico Aiello, di essere stato “lasciato solo sotto la pioggia”. La solitudine si riferisce alla mancata solidarietà ricevuta da Arno Kompatscher, il suo successore alla presidenza della Provincia. La pioggia è in realtà il diluvio scatenato contro di lui, una sentenza che lui ha definito “politicamente motivata” a causa del suo ruolo di “rappresentante dell’Alto Adige”. Con conseguenze concrete pesanti, visto che è stato condannato a pagare 380mila euro, che si aggiungono ai quasi 500mila di una precedente condanna legata al consenso dato all’abbattimento di selvaggina protetta (marmotte e cormorani).

Secondo Durnwalder la classe politica altoatesina avrebbe dovuto difendere sia le leggi in materia di caccia, emanate dalla Provincia, sia la gestione dei fondi di rappresentanza e questo è lo scontro istituzionale che sta sullo sfondo di una vicenda durata quasi dieci anni. Secondo l’avvocato Brandstätter la sentenza è “incredibile, ingiusta e sbagliata”. Farà ricorso alla Corte di Strasburgo perché “il diritto di fornire prove è stato negato”. Avrebbe voluto una perizia sulla rendicontazione non obbligatoria delle spese, ma che Durnwalder teneva, da cui emergerebbe che egli aveva anticipato di tasca propria le spese pubbliche non usandole mai per esigenze private. L’indagine iniziò nel 2012. Sul piano contabile c’è stata la condanna a restituire i soldi. Sul piano penale due assoluzioni, poi la Cassazione ordinò un nuovo processo in Corte d’appello. A Trento, nel 2019, la condanna ora confermata in Cassazione.

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