Non è illegale e non rappresenta neanche una forma di illecito. Non viola la legge, per il semplice fatto che una vera e propria norma, almeno in Italia, ancora non c’è. Eppure il fenomeno delle porte girevoli rappresenta una delle più deleterie pratiche che possono minare la trasparenza, l’integrità e l’equità delle istituzioni. Un fenomeno sfuggente, quasi sempre completamente legale e che per questo motivo è spesso sottovalutato o ignorato dall’opinione pubblica. Non solo da quella italiana. Gli inglesi le hanno ribattezzate revolving doors, i francesi le chiamano pantouflage, nei fatti è sempre la stessa storia: poltrone che girano, cambiando radicalmente la propria natura e sulle quali siedono le stesse persone. Ieri erano ufficiali pubblici, politici eletti per prendere decisioni a tutela degli interessi della comunità; oggi fanno i lobbisti, pagati per fare pressione a favore del loro nuovo datore di lavoro. Ecco perché si chiamano porte girevoli: imboccandole ex politici di alto livello riescono a passare da un ruolo pubblico a un incarico privato, spesso molto ben remunerato. Dove sta il problema? Intanto nel fatto che l’ex politico porta con sé una rete di informazioni e relazioni costruita grazie negli anni trascorsi al vertice dell’amministrazione pubblica. Rapporti e conoscenze che fanno gola ai privati. Soprattutto quando i profitti di questi ultimi sono legati a doppio filo al tipo di decisioni che prenderà la politica. In questo senso le porte girevoli sono una patologia dell’attività di lobbying: è pressione sul decisore pubblico operata da un ex decisore pubblico.

Sul fenomeno delle porte girevoli tra politica e affari l’organizzazione non governativa the Good Lobby ha realizzato un dossier, che ilfattoquotidiano.it ha presentato in esclusiva e ha offerto in anteprima ai suoi sostenitori. Nella seconda puntata della nostra inchiesta raccontiamo quali sono gli episodi principali che hanno visto politici di alto livello passare dall’altra parte della barricata. Senza mai violare alcuna legge. Non tutti i casi, però, sono uguali. C’è chi è più a rischio di conflitto d’interessi, visto che per i privati si occupa esattamente degli stessi dossier trattati quand’era decisore pubblico, e chi invece ha cambiato completamente settore d’interesse. Un fattore importante è anche quello rappresentato dal tempo: una cosa è passare dalla politica alle lobby senza alcun cooling-off; un’altra quando l’ex onorevole trascorre un periodo di “raffreddamento” prima d’imboccare la sua porta girevole. In questo senso una cosa è passare da parlamentare ed ex ministro dell’Economia a presidente di Unicredit, come è recentemente accaduto a Pier Carlo Padoan, un’altra è essere nominato consulente di Airbnb tre anni dopo aver lasciato la politica, come nel caso di Francesco Rutelli. E ancora: sono trascorsi quattro anni dalle dimissioni di Federica Guidi da ministra dello Sviluppo economico di Matteo Renzi alla nomina nel cda di Leonardo-Finmeccanica. Ancora diversa è la situazione di Maurizio Martina, ex ministro delle Politiche agricole che ha lasciato il seggio in Parlamento per fare il vice presidente della Fao. L’organizzazione delle Nazioni unite che si occupa di alimentazione e agricoltura non è considerabile come una lobby in senso stretto, visto che tra i suoi obiettivi non ha quello d’influenzare e fare pressione le decisioni dei governi. Ma senza il passato in politica, con le relative reti di conoscenze e relazioni, Martina avrebbe avuto comunque accesso a un incarico di prestigio come quello che ha ottenuto dopo aver fatto il ministro?

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