Il futuro di Israele e Palestina potrebbe decidersi a Rafah. I tank e i blindati dello ‘Stato ebraico‘ sono già pronti a entrare di nuovo, forse per un’ultima volta, nella Striscia di Gaza dal valico Kerem Shalom. L’obiettivo è l’operazione militare nella città all’estremo sud dell’anclave per portare a termine la promessa “eradicazione di Hamas“. La mossa è imminente, ma gli ostacoli dell’ultima ora non mancano. Innanzitutto, dopo il suo viaggio in Cina, martedì il segretario di Stato americano, Antony Blinken, si recherà a Tel Aviv per discutere dei piani militari d’Israele con l’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu. Ma da Hamas si leva una proposta inattesa e sulla carta storica: Khalil al-Hayya, membro dell’Ufficio politico del partito armato e protagonista dei colloqui con Israele, ha affermato che la formazione è disposta al disarmo in cambio di una tregua di almeno cinque anni e il riconoscimento di uno Stato palestinese con i confini precedenti al 1967, quelli riconosciuti dalle Nazioni Unite.

Fulmine a ciel sereno da Hamas
La proposta di al-Hayya arriva all’improvviso, inaspettata, e in attesa di ulteriori conferme rischia di stravolgere gli equilibri e le posizioni nel conflitto con Israele. Ma i fattori da tenere in considerazione sono tantissimi. Innanzitutto è da valutare quanto la proposta riscuota appoggio all’interno del partito armato palestinese. Dopo le parole di al-Hayya, che a Gaza può essere considerato una sorta di vice di Yahya Sinwar, nessun altro esponente della leadership di Hamas ha commentato o rilanciato la proposta nel momento in cui si scrive. In caso di smentita, questo non farebbe altro che confermare come all’interno del gruppo convivano anime con posizioni e sensibilità diverse, nonostante il comune obiettivo di combattere ed eliminare Israele dalla cartina geografica.

Queste dichiarazioni rappresentano comunque, se confermate, una svolta totale, una mossa senza precedenti del partito islamista che va contro uno dei punti fondanti dello Statuto di Hamas, ossia la riunificazione della Palestina “dal Giordano al mare” e la conseguente cancellazione dello Stato di Israele. Non a caso, il movimento si è sempre opposto alla soluzione dei “due popoli, due Stati“, sostenendo che la lotta armata sarebbe dovuta proseguire fino alla riconquista di tutti i territori in mano a Tel Aviv.

Quali siano le motivazioni dietro a una mossa del genere è ancora presto per dirlo. Un’operazione militare israeliana a Rafah, ad esempio, rischierebbe di distruggere definitivamente le basi logistiche ancora sotto il controllo del gruppo, con conseguenti nuove e pesanti perdite in termini di miliziani e armamenti. Hamas non sparirebbe come promesso dal governo di Benjamin Netanyahu, ma certamente ne uscirebbe fortemente indebolita dal punto di vista delle risorse a disposizione e avrebbe bisogno di anni per poter tornare ai livelli attuali di controllo sulla Striscia. Per evitare questo, è possibile che la leadership del partito abbia deciso di mettere sul tavolo un’offerta che gli alleati di Israele, più che Tel Aviv stessa, non possono rifiutare: il disarmo del gruppo armato, un cessate il fuoco a lungo termine e l’ok anche del partito estremista all’avvio del processo per la soluzione dei due Stati.

Una mossa per mettere in difficoltà Israele
Tra gli osservatori c’è invece chi vede nelle parole di al-Hayya esclusivamente una provocazione verso Tel Aviv. Questa lettura non è da escludere affatto, anche perché lo stesso leader ha precisato al giornale arabo con sede a Londra Araby al-Jadeed che questa sarebbe solo una posizione temporanea e che i palestinesi mantengono il “diritto storico su tutte le terre palestinesi“. A questo ha poi aggiunto che che il previsto Stato palestinese richiederebbe “il ritorno dei profughi palestinesi” nell’odierno Israele, il cosiddetto “diritto al ritorno” che prevede che fino a 6 milioni di discendenti di rifugiati entrino in Israele, una richiesta inaccettabile per Tel Aviv perché significherebbe l’eliminazione di uno Stato a maggioranza ebraica.

Se sulla buona fede della proposta si attendono quindi conferme, di certo il movimento ha preso in considerazione e calcolato le conseguenze che un annuncio del genere poteva avere sulla leadership israeliana. Fino a oggi, Netanyahu ha fondato la sua intera carriera politica sulla promessa che con lui al governo non sarebbe mai nato uno Stato palestinese, in completa ed esplicita rottura con l’era di Yitzhak Rabin, e questa sua posizione ha trovato giustificazione negli ultimi anni proprio nelle posizioni estremiste di Hamas che prometteva la distruzione dello Stato d’Israele. Ma con il partito armato che promette di disarmarsi, che chiede una tregua immediata e a lungo termine e si impegna ad avviare una stagione di negoziati che possa portare alla creazione di due Stati, rimanere l’unico soggetto a opporsi a una soluzione invocata da tutti gli alleati occidentali, compresi gli Stati Uniti, è più complicato. A questa difficoltà si aggiunge, dall’altra parte, quella di dover eventualmente fare i conti con circa 700mila coloni che vivono illegalmente nei Territori occupati e che, nel rispetto dei confini del 1967 stabiliti dall’Onu, dovrebbero essere sgomberati.

Attesa per Rafah
Così, con Hamas che ha messo la sua offerta sul piatto, resta da capire quale sia la sorte che attende Rafah, città nella quale si è rifugiata circa metà della popolazione palestinese fuggita dalle altre aree della Striscia bombardate da Israele. Da quanto si apprende, tutto è pronto per l’invasione da parte delle Forze di Difesa Israeliane (Idf), ma l’operazione potrebbe rimanere sospesa fino almeno a martedì, quando nel Paese arriverà il segretario di Stato americano, Antony Blinken. I temi al centro dell’incontro saranno proprio l’attacco alla città e i piani per la liberazione degli ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre scorso. Venerdì pomeriggio Israele ha fatto sapere che i colloqui con la delegazione egiziana per trovare un accordo hanno portato a “progressi”, ma “si tratta dell’ultima opportunità” di raggiungere un accordo “prima che l’esercito entri a Rafah”.

Non è chiaro, però, quale sia al momento la posizione di Washington. Fino a qualche settimana fa, prima dell’attacco israeliano sul consolato iraniano a Damasco e la risposta di Teheran, l’amministrazione Biden era allineata ai Paesi europei nel chiedere a Israele di non portare i propri carri armati a Rafah per paura dell’ennesima carneficina di civili. Ma dopo l’escalation di tensione con la Repubblica Islamica, qualcosa potrebbe essere cambiato. Secondo indiscrezioni circolate dopo la reazione iraniana all’attacco dello ‘Stato ebraico’, gli Usa potrebbero aver promesso a Netanyahu mano libera a Rafah se la nuova reazione di Israele nei confronti dell’Iran fosse stata limitata, o “saggia“, come l’ha definita il premier israeliano. In effetti, Tel Aviv non ha risposto in maniera muscolare, ma si è limitata a colpire obiettivi strategici, tra cui la base militare di Esfahan. E adesso, forse, chiede che le promesse vengano mantenute e che quindi scatti il via libera su Rafah. La visita di Blinken, in questo caso, servirebbe solo a stabilire quali obiettivi colpire per cercare di limitare le inevitabili perdite civili.

Twitter: @GianniRosini

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