La Regione Veneto ha tentato inutilmente di non rendere pubblici i dati sulla contaminazione da Pfas nella catena alimentare. Ma il Tribunale amministrativo regionale, accogliendo due ricorsi presentati da Greenpeace e dalle Mamme No Pfas, l’ha condannata a mettere a disposizione dei due movimenti i documenti relativi alle indagini sugli alimenti che potrebbero essere stati contaminati dalle sostanze perfluoroalchiliche. La questione riguarda uno degli inquinamenti più gravi che si siano registrati in Italia. La produzione dei Pfas a scopo industriale nella zona di Trissino (è in corso un processo ai proprietari della società Miteni) ha reso imbevibile l’acqua della falda freatica che si trova nel sottosuolo delle province di Vicenza, Verona e Padova. Alcune centinaia di migliaia di persone sono interessate al fenomeno, decine di migliaia sono state sottoposte a controlli e screening sanitari, per ovviare ai danni causati alla salute (tra l’altro, rischi di tumori e riduzione della fecondità). Una parte della questione riguarda però la catena alimentare, ovvero gli animali, le piante o gli ortaggi che sono entrati in contatto con l’acqua inquinata.

Greenpeace e il gruppo Mamme No Pfas avevano presentato la richiesta di accesso. Si riferivano ai valori relativi a tutte le 12 sostanze Pfas analizzate nei campioni degli alimenti e alla geolocalizzazione delle matrici campionate. Inoltre veniva chiesto se nelle aziende produttrici di alimenti in cui sono state riscontrate concentrazioni significative siano state eseguite ulteriori ispezioni per verificare l’osservanza delle prescrizioni delle Ulss competenti e se siano stati effettuati raffronti con i campionamenti relativi al 2016-2017. Infine, alla Regione veniva chiesta prova delle iniziative precauzionali e sanitarie per evitare la diffusione dei prodotti contaminati. Si tratta di un tema esplosivo, perché riguarda il controllo della produzione di alimenti, da parte di aziende agricole o industrie, pur in presenza di Pfas.

Nell’agosto 2020 il direttore vicario dell’Area sanità e sociale della Regione Veneto aveva negato in parte l’accesso ai documenti. Greenpeace si era rivolta al Garante per la difesa dei diritti della persona e difesa civica della Regione Veneto che aveva accolto il ricorso. A quel punto il direttore dell’Area sanità e sociale aveva confermato il diniego. Con che giustificazione? Si era fatto un generico riferimento a procedimenti penali in corso e alla tutela della privacy.

I giudici del Tar hanno invece stabilito che la richiesta riguardava “informazioni ambientali” ed erano accessibili. Non basta l’esistenza di procedimenti penali per non “garantire la più ampia diffusione delle informazioni ambientali detenute dalle autorità pubbliche”. Inoltre la richiesta non era né “manifestamente irragionevole”, né “generica”. Se si impedisse alla collettività di conoscere dati “ambientali” finché pende un processo, si metterebbe per anni una pietra tombale sulla discovery. La Regione ha ora 60 giorni per consegnare i documenti (ma può ricorrere in Consiglio di Stato) e pagherà 1.500 euro di spese legali.

“Sono sentenze storiche – commentano Greenpeace e le Mamme No Pfas – Da circa due anni chiediamo trasparenza alle autorità locali con tutti gli strumenti che la legge mette a disposizione e finalmente il Tar ci dà ragione. Le persone che da decenni subiscono le conseguenze di tale inquinamento hanno il diritto di sapere i dettagli della contaminazione degli alimenti coltivati in zona, quali sono i prodotti più a rischio e la loro provenienza, con riferimento a tutte le 12 sostanze perfluoroalchiliche analizzate”. Segue una specificazione: “Non vogliamo assolutamente creare allarmismi e tanto meno criminalizzare le categorie produttrici, anch’esse vittime di questo grave inquinamento. Per questo abbiamo chiesto anche di conoscere le attività ispettive di ulteriore controllo della Regione Veneto e le azioni di tipo precauzionale che possono e devono aiutare le aziende produttrici”. Importante è anche la geolocalizzazione dei dati. “Non basta sapere il valore medio dei Pfas nella carne bovina – cita Greenpeace come esempio – ma occorre conoscere, ai fini della prevenzione, dove, in quali aziende, i valori fuori norma sono stati riscontrati”.

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