Pietro Fragnelli lo ripeteva sempre: “Siamo tornati nella schifezza”. Era originario di Crispiano, paese a pochi chilometri da Taranto, e lì rientrava ogni domenica per rivedere i familiari e gli amici di sempre. Poi al tramonto tornava nel quartiere Tamburi, il rione a pochi metri dalle ciminiere dell’Italsider. Dopo anni di duro lavoro in Germania, Pietro era stato assunto come custode della scuola Deledda, quella che in tempi recenti diventerà per l’Italia la scuola dei veleni. “E pensare che ci sentivamo dei privilegiati. Anni e anni in giro e finalmente avevamo un po’ di stabilità”, racconta la figlia Anna. È nata nel 1964, quando Taranto iniziava a vedere gli effetti economici della costruzione dell’acciaieria. Anna è la maggiore di tre figli, poi sono nati Donato e Tina. La loro infanzia trascorrerà nel cortile della scuola Deledda: “Giocavano nel minerale – ricorda la donna – All’inizio, quando non c’erano neanche le collinette ecologiche, in casa arrivavano quantità incredibili di polveri. Eravamo praticamente quasi all’interno dei parchi dovevano si stoccavano ferro e carbone”.

Una vita passata in quel posto avvelenato, giorno dopo giorno. “Avevamo un lucernario nel bagno, era aperto e bisognava lavare tutti i giorni. Così come diventavano brillanti i tre gradini all’ingresso di casa”. Nessuno all’epoca immaginava ai danni che quella brillantina avrebbe causato. Pietro lavorava e tutti lo ricordano come un brav’uomo: “Era pieno di amici. “Pierino u’ custode” ancora oggi se lo ricordano tutti. Se non lo vedevano, bambini, genitori e insegnati venivano a cercarlo”. La convivenza con quel vicino d’acciaio e di sbuffi bianchi non è mai andata a genio a Pierino il custode: “La fabbrica non l’ha mai sopportata. La domenica andavamo dai nonni e quando tornavamo, appena vedeva i fumi, ripeteva ‘Amme turnate indra a schkifezze’ (Dobbiamo tornare nella schifezza, nda)”. I rischi? “Non ne parlava nessuno, nemmeno lo immaginavamo che la Deledda sarebbe diventata la scuola dei veleni. All’epoca il Comune disponeva i controlli per i lavoratori. Facevano le analisi del sangue e visite mediche. Mai nessuno che ci abbia detto che eravamo in pericolo”.

Il dramma ha bussato alla porta nel 2006, come accadeva – e accade ancora – a tante famiglie di Taranto. Tumore. “Voleva stare di nuovo con gli amici di infanzia ed è tornato a Crispiano, ma la malattia l’ha consumato. Prima lo stomaco, poi i testicoli, quindi l’orecchio. Gli ultimi anni se ne sono andati tra cicli di chemioterapia e ricoveri“. Se n’è andato nel 2007. Così Anna, Donato e Tina hanno chiamato l’avvocato Massimo Tarquinio e hanno scelto di costituirsi parte civile nel processo “Ambiente svenduto” contro la famiglia Riva, ora alle battute finali. “Sappiamo che la nostra piccola storia non è paragonabile al dramma generale: è solo una piccola storia, ma era giusto esserci. Fare la nostra parte”. Anna e Tina sono anche state chiamate a testimoniare, raccontando davanti ai giudici la storia del padre e un po’ anche la loro.

Perché negli anni il male ha bussato di nuovo alla porta. Pochi mesi fa un tumore al pancreas ha portato via anche Tina. Nonostante tutto Anna, tornata intanto anche lei a Crispiano, ogni tanto sente la nostalgia della città: “Quando si passa dalla statale e si vedono quelle montagne di minerale e carbone si resta sgomenti, ma io ho lasciato così tanti affetti in quel quartiere…”. Chi non ne vuole sapere è suo figlio: “Dice sempre che finché ci sarà l’Ilva qua non ci tornerà”. Se n’è andato a Rotterdam, a distanza dal mostro d’acciaio. Lontano da quella manciata di metri che sono costati la vita a Pierino, tornato a casa dalla Germania per fare il custode di una scuola.

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