di Claudio Gianotti*

Non ci renderemo complici di un ecocidio di Stato. Fridays For Future, l’associazione medici per l’ambiente Isde Italia, Giustizia climatica e altre associazioni hanno diffidato il governo, la Regione Puglia, il Comune di Taranto e Invitalia perché riconsiderino l’accordo stipulato con ArcelorMittal alla luce dei doveri presi dallo Stato italiano con gli accordi di Parigi e al dovere di informazione sulle emissioni dello stabilimento.

Le premesse

L’acciaieria di Taranto è la più grande d’Europa. Secondo Agi ha prodotto nel 2019 4,5 milioni di tonnellate di acciaio, ossia circa il 18% della produzione nazionale, occupa circa 8 mila dipendenti ed è centrale nell’economia di Taranto, della Puglia e in un certo senso di tutta la nazione per il ruolo strategico nell’industria. Questo stabilimento ha una storia antica: fondato nel 1965 dall’Iri, passa a gestione privata sotto il gruppo Riva.

Il processo

Secondo la ricostruzione fatta dal quotidiano La Stampa, nel febbraio 2012 inizia l’iter giudiziario complesso che scoperchierà il vaso di Pandora sull’inquinamento dell’area. Vengono indagati i vertici del gruppo e dello stabilimento sulle basi di uno studio epidemiologico e chimico per svariati reati tra cui disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico. Inoltre, vengono sequestrati gli impianti a caldo. Da quel momento i massimi vertici del Governo si impegnano per trovare una soluzione che tuteli la salute dei cittadini ma allo stesso tempo garantisca l’occupazione e la produttività dell’azienda, non senza tensioni tra politica e magistratura con decreti ad hoc, contrastanti alcuni provvedimenti emessi dal Gip.

Tappa fondamentale è la nuova autorizzazione ambientale integrata, rilasciata dal ministero dell’Ambiente, che impone misure importanti volte a ridurre l’impatto ambientale e sanitario dello stabilimento, entrando nel merito di tutto il ciclo produttivo, chiedendo ad esempio la copertura dei siti di stoccaggio e la chiusura di alcuni forni di cokefazione.

Dal maggio 2013 l’azienda è stata sottoposta a commissariamento straordinario durante il governo Letta e a giugno dello stesso anno viene presentato uno studio commissionato dalla azienda stessa che critica quello precedentemente presentato dal ministero della Salute e dall’Arpa Puglia; il commissario Enrico Bondi arriva a attribuire l’eccesso di mortalità e di malattia in città al tabacco.

Il raggiungimento degli obiettivi di messa in sicurezza e di riduzione delle emissioni subiscono battute di arresto, con la proroga della scadenza per la copertura dei parchi minerari.

L’amministrazione ArcelorMittal

A giugno 2017 il colosso dell’acciaio si aggiudica l’amministrazione del gruppo, compresa l’acciaieria tarantina, con una formula che prevedeva un ingresso graduale di capitali con l’obiettivo di un rinnovamento industriale che garantisse livelli di occupazione e parametri ambientali e sanitari. Tuttavia, il piano industriale presentato prevedeva cospicui tagli della forza lavoro e contava su uno scudo penale per i vertici del management durante la fase di bonifica.

Il ritorno dell’acciaio di Stato

Proprio quest’ultimo punto è stato il pomo della discordia tra ArcelorMittal e il nostro Paese. Più volte introdotto e cancellato, è stato considerato dall’azienda il casus belli per ritirarsi dall’acciaieria, senza portare a termine gli investimenti promessi. Infatti, come evidenziato da Il Fatto Quotidiano, esistono sospetti di un piano cosciente di depotenziamento dello stabilimento in una logica di terra bruciata della concorrenza, e il contesto internazionale appare mutato dai dazi imposti da Trump sull’acciaio e dal Covid-19.

A questo punto si aprono le porte per una partecipazione pubblica e lo Stato, come Invitalia, sigla un accordo vincolante con ArcelorMittal per entrare nell’azienda. Come apprendiamo da un comunicato stampa della compagnia stessa datato 12/11/2020, i termini sono un investimento in due tranche fino a un miliardo di euro di denaro pubblico per raggiungere la proprietà del 60% dell’azienda, una governance condivisa e un aumento di produzione fino a 8 milioni di tonnellate di acciaio all’anno.

Leggiamo inoltre che esistono delle clausole sospensive dell’accordo: “Le condizioni sospensive al closing comprendono: la modifica del piano ambientale esistente per tenere conto delle modifiche del nuovo piano industriale; la revoca di tutti i sequestri penali riguardanti lo stabilimento di Taranto; l’assenza di misure restrittive – nell’ambito dei procedimenti penali in cui Ilva è imputata – nei confronti di AM InvestCo.”

La diffida

Il 7 dicembre 2020 le principali associazioni ambientaliste tarantine hanno diffidato il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte per ottenere informazioni sul profilo di sicurezza ambientale dell’impianto. Infatti il nuovo soggetto che guiderà l’acciaieria sarà a maggioranza pubblica e pertanto vincolato a garantire standard di trasparenza superiori a quelli adottati finora.

Il disastro ambientale

La perizia epidemiologica chiave dell’inchiesta del 2012 ha mostrato una situazione disarmante. Nei 7 anni presi in considerazione c’è stata una media di 1650 morti all’anno, 4,5 al giorno. Circa 27000 ricoveri, soprattutto per cause respiratorie e cardiovascolari. E la perizia chimica mostrava l’emissione di una quantità di inquinanti impressionante con un alto impatto per la salute umana. Benzoapirene, cancerogeno certo, piombo, mercurio, arsenico, cadmio e altri metalli pesanti, gas come ossidi di azoto e di zolfo, nocivi per il sistema respiratorio, monossido di carbonio, un gas che in sufficienti quantità causa asfissia, e quantità enormi di particolato.

Sempre la perizia epidemiologica mostra come per aumenti di 10 unità di particolato vi sia un incremento della mortalità per cause naturali dello 0,82% e picchi della mortalità cardiovascolare nel quartiere Tamburi in estate del 18%. Vi è poi il caso diossina: apprendiamo dal sito della Camera dei deputati come dal 2002 al 2006 lo stabilimento tarantino fosse la causa della produzione di una quantità enorme di questo inquinante, dal 30 al 90% circa.

Lo studio nazionale più importante in termini di ambiente e salute si chiama Sentieri e analizza i 44 siti più inquinati del territorio italiano tra cui Taranto. Il quinto rapporto risale al 2019 e porta dei dati che si commentano da soli per la città di Taranto. Lo studio identifica per la città come principali fonti di inquinamento una raffineria, un impianto siderurgico, un’area portuale e delle discariche senza suddividere i dati. In particolare, osserviamo un aumento del 9% della mortalità per tutte le cause tra gli uomini e del 5% tra le donne; dell’11% e dell’8% per malattie tumorali e del 29 e del 13% per malattie dell’apparato digerente. Vi sono poi dei picchi per singole malattie come il 303% in più di morti per mesotelioma pleurico tra gli uomini e il 37% in più di tumori polmonari nelle donne, dati tutti statisticamente significativi e non attribuibili al caso.

Considerazioni

Il problema ex-Ilva di Taranto è sicuramente complesso: coinvolge temi come salute, lavoro, ambiente e tecnici. Tuttavia, ci appare finta la contrapposizione tra salute e lavoro e tra sostenibilità ambientale e produttività. Ad esempio, non sembra giustificata la produzione di livelli così alti di diossina (dal 30% al 90% circa) nonostante la produzione del 18% circa dell’acciaio nazionale; l’attuazione delle prescrizioni imposte nell’autorizzazione ambientale integrata del 2013 ridurrebbe di molto le emissioni inquinanti, come dimostrano i dati dell’Arpa Puglia dopo l’attuazione dei primi provvedimenti del suddetto documento.

Inoltre esistono provvedimenti tecnici fattibili che ridurrebbero di molto le emissioni di sostanze nocive e di CO2, come sottolineato dal quotidiano Il Sole 24 Ore. Infine, la nazionalizzazione dell’azienda pone dei vincoli legali di trasparenza che non sono rispettati: ciò non sembra giustificabile alla luce degli accordi firmati dal nostro Paese per la riduzione delle emissioni di CO2.

*Fridays For Future, in collaborazione con Francesco Romizzi di Isde e Michele Carducci di Giustizia climatica

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